IL VERDE A ROMA: LA VEGETAZIONE SPONTANEA URBANA.




Conversazione della dr.ssa Paola Lanzara, presidente del Giardino Romano – Garden Club, in occasione della Giornata Nazionale del Giardino - Semenzaio di S.Sisto, Roma – 14 Aprile 2007



Può sembrare inverosimile parlare di “flora spontanea” in una città così congestionata come Roma; eppure la felice posizione geografica, sottolineata dagli autori latini dalla fine del periodo repubblicano fino al principio di quello imperiale, (Marco Pollione Vitruvio, 1° sec. A.C., architetto romano, ingegnere militare di Cesare e Augusto, scrisse nel “De Architectura” Libri X: “La mente divina collocò la città del popolo romano in una egregia e temperata regione affinché conquistasse l’impero del mondo”) può essere considerata una delle cause per le quali un occhio attento può talvolta incontrare qualche lembo che ci riporti all’immagine dell’origine della città.

Innanzi tutto bisogna intendersi sul significato da assegnare alla definizione di “vegetazione naturale”: essa infatti deve interpretarsi come l’insieme delle piante, cioè della flora spontanea di un luogo, caratteristica di quel tipo di clima, di quella morfologia del territorio e legata ad un determinato substrato. Si tratta insomma di un insieme di piante che, in assenza dell’intervento dell’uomo, sarebbe presente e si perpetuerebbe nel tempo riproducendosi con le proprie dinamiche senza nessun tipo di intervento di manutenzione quali concimazioni, annaffiature o potature.

Con ciò cerchiamo di sottolineare questo particolare aspetto della città eterna che si manifesta sotto i nostri occhi ogni giorno ma di cui spesso non ci rendiamo conto.

Vorrei ricordare che i nostri predecessori, gli abitatori antichi della città eterna, erano sì pieni di difettacci, arroganti, lesti di lingua e di mano e un po’ tanto guerraioli, ma avevano altresì qualità grandi che noi non abbiamo più esercitato e fatto crescere: prima di tutto erano grandi osservatori e poi pazienti come tutti coloro che, in antico, sono vissuti vicino alla terra. Non dimentichiamo che i romani sono stati un popolo di colonizzatori e di abili agricoltori e l’uomo che semina si arma di pazienza per aspettare il frutto.

Agli agricoltori romani si affiancano ben presto gli abilissimi ingegneri e le loro perfette maestranze che sapevano, con intuito ma anche sorretti da una paziente precisione, come mettere le pietre per creare un arco o una volta.

In realtà quello che, con un po’ di buona volontà e spirito di osservazione, riusciamo a scoprire sono lembi dell’antica vegetazione che ricopriva i famosi sette colli e le zone planiziarie circostanti prima della loro distruzione, in epoca storica, a causa delle varie edificazioni e prima che ci fosse l’invasione delle “piante esotiche” estranee alla flora locale.

Quando i gemelli Romolo e Remo, a diciotto anni, stufi, come è normale anche ai loro attuali coetanei, di vivere nella bella casa del nonno Numitore, re di Alba Longa, decisero di voler fare qualcosa di nuovo e di bello, scelsero oculatamente una terra aprica ricca di verdi colline che si disponevano intorno al fiume.

La Roma primitiva (Roma quadrata) si forma sull’altura del Palatino molto modesta di forme e ristretta di estensione ma al riparo dalle inondazioni, dalla malaria e dai colpi di mano.

Pieter Paul Rubens (1577 – 1640), il pittore fiammingo innamorato della classicità, rappresenta le premesse della storia di Roma in un suo quadro (1617-18), ora ai Musei Capitolini; egli ci mostra i gemelli sulla sponda del Tevere mentre la lupa, Rea Silva e Faustolo gli fanno corona. Ma la cosa più interessante è che questo quadro ci mostra la vegetazione delle sponde con molta precisione: il fico (Ficus carica) vecchio e contorto dalle caratteristiche foglie pentolobate e il canneto, l’insieme di canna gentile (Arundo donax) che, in un tempo non lontano, abbondava allo stato spontaneo non solo nei pressi degli acquitrini di cui il territorio della città classica era cosparso (pensate che i papi lasciarono il Vaticano per il Quirinale, e ci regalarono questa importante nuova sede, perché il Vaticano aveva un’aria malsana, malarica probabilmente, e il Quirinale, in altura, più salubre) ma anche negli spazi liberi dalle costruzioni lasciati senza interventi antropici all’interno delle città. Il canneto è rappresentato in una delle Quattro Fontane, all’incrocio dell’omonima via, che mostra il fiume come figura giacente con fondale decorato con questo aspetto della flora spontanea.

A Roma perfino la toponomastica cittadina attuale ci viene in aiuto: Via dei Canneti e Vicolo dei Canneti tra Via A. Scarpa e Via Tiburtina ed inoltre la lunga e bella traversa di Viale Romania che si chiama ancora Via del Canneto, per non parlare dei tanti toponimi scomparsi.

La cannuccia (Phragmites australis), comune in tutto il territorio italiano, non ha niente a che vedere con l’Australia ma, traducendo alla lettera l’aggettivo specifico latino, ci si accorge che si vuol dire semplicemente meridionale. Spesso è mescolata alla pianta che alcuni chiamano ceppica ma che già i latini chiamavano inula-ae che ha i fiori raccolti in ricche pannocchie gialle (Via Sesto Rufo a Monte Cocci)

Se si parla di fiori, di mura antiche e di ruderi non possiamo non accennare alla splendida fioritura, in giugno-luglio, del cappero (Capparis spinosa) dai leggeri fiori bianco-rosei, marcati di rosso porpora, dai numerosissimi stami. I capperi che consumiamo, sotto sale o sotto aceto, sono i boccioli immaturi la cui raccolta si deve fare in maggio.

Tra le specie rupestri muricole, dai bellissimi fiori dal giallo scuro al bruno aranciato, è presente la Violacciocca gialla (Erysimum cheiri) ormai meno frequente, mentre molto abbondante è la Valeriana rossa (Centranthus ruber) (che può presentarsi anche bianca o rosata) che abbellisce i muraglioni da maggio ad agosto ed il cui nome comune è Camarezza.

Le piccole margheritine che nulla se non la famiglia botanica delle Asteraceae hanno in comune con quella di “mi ama, non mi ama” e che un poeta apostrofava dicendo “hai i bordi rossi come l’ha l’aurora e il sole biondo nella tua raggiera”, sono quelle dell’Erigeron che è proveniente dal Messico e mentre il Saccardo, un grande studioso di datazioni, nella sua cronologia del 1909 non lo dà presente, Federico Maniero lo dice entrato già nel catalogo del 1852 dei fratelli Rovelli di Pallanza. Questa pianta ha compiuto comunque una conquista tanto rapida dell’ambiente muricolo e non, da potersi considerare del tutto naturalizzata nel nostro territorio.

Una grande avanzata sulle cinte murarie e sui ruderi ha compiuto la Bocca di leone rossa (Antirrhinum tortuosum): dapprima era un gridolino di gioia allorquando lo si trovava ma ora per il suo grande sviluppo è diventato quasi comune; è caratteristica la struttura dei fusti che gli ha meritato l’attributo specifico di tortuosum.

Possiamo dimenticare a Roma le querce che sono simbolo di forza e di potenza?

Già nelle sacre scritture Amos dice ( II, 9) “la forza come quella della quercia” (parlando di Amorreo, il nemico). Nel versante ovest del Gianicolo, verso il fiume, c’è il triste moncone della Quercia del Tasso (che aveva 350 anni quando, nel 1840, fu colpita da un fulmine): tutti si fermano a guardare quel rudere vegetale e magari a leggere la lapide che ricorda Filippo Neri (1515-1595) che “coi fanciulli fanciullo” veniva qui a giocare con i suoi protetti per toglierli dalla strada.

In realtà poco più avanti, al di sotto del teatro della Quercia, un piccolo gruppo di roverelle (Quercus pubescens) ombreggiano lo sperone del colle. E’ certamente un residuo della vegetazione primigenia che vestiva l’uno e l’altro versante delle colline attorno al fiume.

Legato indissolubilmente all’architettura romana classica dei capitelli corinzi, che nella denominazione ricordano la loro origine greca, vive a Roma spontaneo l’Acanto (Acanthus mollis).

In quali zone d’Italia sia realmente spontaneo negli incolti aridi e nei cespuglieti oggi è impossibile dirlo: coltivato per ornamento già nell’antichità è ormai comunemente naturalizzato in quasi tutta l’Italia peninsulare fino ai colli prealpini; lo si incontra spesso in stazioni secondarie, legate cioè all’antropizzazione, ma il suo posto d’elezione è incontrarlo al Foro o al Palatino e vedere le sue lunghe spighe cilindriche dai fiori trilobati bianco-lilla sbocciare tra le rovine.

Se i muri sono in luogo più ombroso e fresco compare la deliziosa Cymbalaria muralis che opera la sua disseminazione esclusivamente nelle fessure dei muri usando quelle che negli animali si chiamerebbero “cureparentali”: questa pianta infatti infila, attorcendo lo stelo, i semi tra i sassi ed i mattoni affinché possano germinare in luogo adatto.

Negli stillicidi delle rocce ma anche delle fontane compare il capelvenere. Adiantum , il nome del genere, deriva dal verbo greco che vuol dire non bagnabile , mentre il nome della specie, “capillus veneris”, ci è dato dal nero lucente degli steli contraddicendo l’iconografia classica che ci ha mostrato Venere sempre bionda.

L’Olmo (Ulmus minor), uno degli alberi più frequenti nella vegetazione spontanea romana, decimato dalla grafiosi, una malattia di questa pianta, era sacro a Morfeo, figlio di Ipno (il Sonno), perché quell’albero invitava il contadino a riposare all’ombra fresca e mite delle sue fronde. (Morfeo dal greco morfè = forma era la divinità che rendeva possibile, nei sogni, la presenza di figure umane).

L’Olmo è, per eccezione, una pianta felice: i romani infatti dividevano le piante in felici e infelici: felici erano le piante che portavano frutto commestibile o comunque utile all’uomo; l’olmo che per i nostri antenati (ma anche per noi) non dava frutti commestibili doveva stare tra le infelici ma, per eccezione, si trova tra le felici perché è una pianta statuminale (da statumen, statuminis – sostegno); sugli alti olmi si faceva infatti appoggiare la vite (come ancora nelle campagne del casertano) per tenerla lontana dall’umidità del terreno che poteva favorire le muffe.

Tra le piante felici, per eccezione, c’era anche il tiglio (Tilia cordata) perché con le strisce della sua corteccia si legavano le corone in genere usate nei giorni di festa.

Della vite (Vitis vinifera) dobbiamo dire che comparve sulla terra in un periodo assai antico anche se oggi la sottospecie silvestris di Vitis vinifera è presente talvolta nei boschi dell’Europa centro-meridionale. Dioniso, chiamato poi Bacco presso i latini, insegnò ai mortali a coltivare la vite: è l’alba dell’agricoltura.

Il tralcio di vite che compare in molti bassorilievi romani era presente e coltivata fino alla seconda guerra mondiale e anche oltre nel territorio di Roma davanti alle osterie, disposta su una piccola pergola: un residuo di questa tradizione è la presenza della vite nel giardino del Grand Hotel e nel giardino di un ristorante a Trastevere. Quest’ultima, nella leggenda locale, avrebbe ombreggiato gli amori di Raffaello con la Fornarina mentre in Piazza Ippolito Nievo, davanti a un bar, il gestore che ha preceduto l’attuale l’ha piantata, ricordando le antiche tradizioni, appoggiata ad un grosso platano, forse a memoria e simbolo.

Roma è una città dalle mille scoperte: una di più è quella di rendersi conto che nel sistema urbano la natura, tanto cara ai romani dell’età classica, si può riscoprire con molto amore e un occhio acuto.


Paola Lanzara




TORNA INDIETRO







WEBMASTER