POESIA DIALETTALE


LA POESIA DIALETTALE UMBRA.
Questa parte del sito è dedicato alla Poesia e alla Prosa in dialetto Umbro. Molti degli autori che troverete sono miei amici, molti di loro sono già conosciuti e hanno già pubblicato qualche loro opera su giornali dell'Umbria, ma io con questo sito intendo farli conoscere a un pubblico più ampio.

Il dialetto Umbro non è molto conosciuto in Italia, qualcuno dei più anziani ricorderà forse un comico Umbro abbastanza famoso negli anni cinquanta: AlbertoTalegalli, ma da allora né in radio né in TV si è più sentito parlare in dialetto Umbro.
Alberto Talegalli si fece conoscere grazie ad una serie di sketch comici trasmessi alla radio, nel programma Rosso e Nero. Il suo personaggio più famoso era il Sor Clemente, un contadino umbro che, arricchitosi, va a vivere nell'elegante quartiere romano dei Parioli, a contatto con l'alta società. Tiranneggiato da una moglie gelosa e autoritaria, il Sor Clemente trova complicità nello Zio 'Ngilino con il quale architetta vari stratagemmi per divertirsi di nascosto delle rispettive mogli.
La sua comicità era basata anche sul suo irresistibile dialetto Umbro - Spoletino.
Diciamo che da allora in Italia in TV non vengono più rappresentate opere in dialetto e l'umbro proprio non si sente mai in TV, nemmeno negli spot pubblicitari che gli preferiscono il marchigiano maceratese ("galletto sano e snello, marghigianello, marghigianello", ecc.), oppure il laziale ciociaro di Pippo Franco, ecc., ecc...
Esistono invece alcune piccole compagnie teatrali che operano a Perugia e dintorni, e rappresentano commedie in dialetto Umbro, ma non sono certo conosciute nel resto dell' Italia né ospitate in TV.
Il dialetto Eugubino in particolare, è molto diverso da quello Perugino o dal Ternano e quindi merita di essere conosciuto.
Appena sarà possibile faremo recitare qualche poesia in dialetto e così potrete anche ascoltarla oltre che leggerla.
Per chi è interessato a poesie, prosa, proverbi in dialetto consigliamo il sito www.dialettando.com

Voglio dedicare questa parte del sito a un mio lontano zio, Giovanni Fanucci, detto Giovanne, che era campione di poesia a braccio, e odiando a morte la suocera compose questa poesia di cui ricordo solo pochi versi... Purtroppo si è persa una sua opera monumentale composta sullo stile della Gerusalemme Liberata e riguardante la Guerra d'Africa a cui aveva partecipato.

I poeti a braccio erano artisti che cantavano, spesso in dialetto, versi improvvisati su un qualunque tema. Questa tradizione antichissima, che ormai si è quasi persa, era praticata nelle osterie come una sorta di duello tra poeti che si ispiravano ai versi dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme Liberata.
L’argomento delle poesie poteva prendere spunto dalla situazione, dalla festa o dalla sagra in corso. L’usanza, però, prevedeva che fosse il pubblico a lanciare dei temi a contrasto: ad esempio moglie/marito, suocera/nuora. Quindi ogni poeta difendeva una delle due parti recitando a turno delle ottave: sei endecasillabi a rima alternata e gli ultimi due a rima baciata. In questo modo si sviluppava una sorta di duello tra i poeti, Si cantava dappertutto, nei parchi, nelle feste, nelle trattorie e nelle osterie... L’osteria diventava spesso il luogo di beffeggianti serate a colpi di versi e rime accompagnati da tanti bicchieri di vino....
L’ottava rima risale al Boccaccio, ma era stata diffusa in tutta Italia soprattutto dai capolavori del Tasso e dell' Ariosto. E i contadini e pastori dell’Italia centrale, tra Umbria, Toscana e Lazio, durante la raccolta o la transumanza o andando in Maremma a tagliare i boschi, spesso intonavano i versi dell’Orlando Furioso o della Gerusalemme liberata, che, come mio zio Giovanne, conoscevano interamente a memoria.

LA SOCERA

LA SOCERA PER ME LA PORTI IL VENTO
LA SOCERA PER ME L' È 'NA ROVINA
LA PORTI LASSÙ NEL FIRMAMENTO
E LA LASCI CADER NELLA MARINA....

Del poeta a braccio Giovanne Fanucci


Il dialetto Umbro, come tutti quelli dell'Italia centrale non è di difficilissima comprensione, comunque, appena possibile cercheremo di tradurre tutte le opere dialettali in italiano.





DUE POETI A BRACCIO

Cominciamo con questa storia raccontataci da Camillo Fanucci, nostro lontano parente, che riguarda l'incontro-scontro tra due poeti a braccio avvenuto nel lontano 1888 a Viterbo.
Il nonno di Camillo, il giovane Vincenzo Fanucci, al termine di una tenzone canora a cui pare assistesse addirittura Trilussa diciassettenne, scoprì con stupore di aver duellato con un suo zio, il sessantanovenne Pioli Giuseppe, fratello della madre, che non conosceva....
Ecco una parte della tenzone poetica, in marrone le strofe del Pioli e in blu quelle del Fanucci.




Alquanto è l'ora tarda e sono stanco,
debbo tornare a Cura di Vetralla,
prima d'andare dimmi tu pertanto
qual'è la terra delle tue castella


De la provincia son di Macerata
del circondario son di Camerino
lo mio Comune è quel di Fiuminata
poco distante è sito Laverino


Giovanotto, sorprende la risposta
c'arreca a me cotanta maraviglia
però se alcun disdoro a te non costa
parlami allora della tua famiglia


Sovrasta lo paese una gran rocca
vivono felici pur non senza crucci,
nella casetta a forma di bicocca
Veneranda e Settimio dei Fanucci


Pioli Veneranda è mia sorella!
tu sei nepote mio tanto sapiente
oltre lo tuo valor cotal novella
m'invita ad abbracciarti immantinente

(segue un abbraccio fra i due poeti)


Nepote ripettoso e reverente
grato ti son per li forti abbracci
bon sangue è proprio vero che non mente
Vincenzo sono, stirpe dei Fanucci


Spinnoli mi sovviene in fondo al piano
de la ristretta Valle del Potenza
le torri di Vallibbia e di Sarracchiano
de li Varano son la rimembranza


Or la Madonna è sola in Sarracchiano,
dall'altra parte al sol c'è la Castagna.
A valle c'è Castello non lontano
che del torto di Massa ancor si lagna


(Strofe riportate da Camillo Fanucci)




“BALENELLO”     (IL TERREMOTO)

di Euro Puletti



QUANNO PASSA BALENÈLLO

TUTTI CÒJJE SUL PIÙ BELLO:

CHI A GAVALLO DE LA MÓJJE,

CHI ’NTE ’L LETTO CO’ LE DÒJJE,

CHI ’NTE ’L SONNO SUO BEATO,

CHI A ’NA VÒJJA ’NGAVINATO.

TUTTI CHIAPPA QUESTA LENZA

E FA COMME LA SBALÈNZA:

’M PO’ TE SGRULLA E ’M PO’ TE RULLA,

PARGHI ’N FÌJJO SU LA CULLA,

PO’ TE SDRÌNGOLA E TE NINNA,

COMME ’N FIÉTTO LA SUA ZINNA,

COMME ’N FIÒLO LA SUA NÉNNA,

COMME UCELLO SU L’ANTENNA.

SGRULLARELLO È TRADITORE:

LUE TE PASSA A TUTTE L’ORE;

NON T’AVISA, NON T’AVÈRTE,

PARE ’N FIO CHE SE DOVÈRTE.

PO’, ’NTE ’L MENTRE CHE T’ACÒRGHI,

È BELL’ORA CHE TU MÒRGHI.

MA, QUANNO PASSA DE NOTTE,

FA LE CASE TUTTE ROTTE:

QUALE CREPA, QUALE PACCA,

POCHE SON CHE NON L’ANTACCA.

ORA VÈRTICA, ORA ARBÀLTA,

OR BALÉNA ED ORA SALTA.

’NA PASSATA E ’N GRAN TRIMÓRE

CHE TE GELA PURE ’L CORE.

PE’ LE SCALE, A SCAPICOLLO,

TE ROMPI L’OSSO DEL COLLO;

DE LA CASA POI SCAPPATO,

RISCHI D’ESSERE ACOPPATO:

UNA POLVERE E ’N GRAN CHIOPPO:

SU LA TESTA ECCOTE ’N COPPO.

SI QUALCUNO PO’ TENTENNA

’N MEZZO ARMANE A ’NA GRAN ZÉNNA.

E, VEDENDO QUEL C’HA FATTO,

ECCO - DICE- : “SO’ DEL GATTO”.

DO’ ’N CE DÀ È PERCHÉ CI HA DATO,

TUTTO ’L MONDO HA SDRINGOLÀTO.

QUANNO ARIVA COI SUOI MALI

L’ SANNO SOLO JJ’ ANIMALI:

’BAIA ’L CANE, L’OCA STRILLA

ZOMPA ’L PESCIO CO’ L’ANGUILLA.

DE LE VOLTE, COMME ’L LUPO,

LANCIA PURE ’NN URLO CUPO

TANTE VOLTE MANDA ’N SÒNO,

PEGGIO PIÙ DEL PEGGIO TRONO.

SI DE TRONO CI HA LA VOCE

QUEL CHE PORTA È ASSAI PIÙ ATROCE:

MAZZA, CIACCA, SPACCA, PISTA,

FA DE DANNI LUNGA LISTA.

MA NIALTRI C’EM LA BUGA

CHE TUTTI I TREMÒTI SFUGA:

PIÙ LUE VÈNE CON GRAN FOGA

PIÙ DRENT’A LA BUGA SFOGA.

E’ DEL CUCCO LA GRAN PANZA

’NA CASSA DE RISONANZA.

DÓPPO CH’È PASSATO LUE

’N MUGGHIA PIÙ NEMMANCO ’L BUE.

SI LA TERRA GRULLA BENE,

JE S’ARSÈNTENO LE VENE

E ’NA FONTE CH’ERA ’SCIÙTTA

UN GRAN GETTO D’ACQUA BUTTA.

QUANNO CREDI CH’È PASSATO

LUE T’HA GIÀ BIRONDOLATO:

CHÉ T’ARTORNA SEMPRE FORTE,

PUNTUAL COMME LA MORTE;

DA NISCIUNO GUARDA ’N FACCIA,

LUE CH’È ’NA BRUTTA BESTIACCIA.

SI TE DONDOLA BEN BENE,

TE LE FA TREMA’, LE VENE.

PO’ ’NTE ’L MENTRE CHE TE GRULLA

LUE TE PORTA ’N CAVANCIULLA

COMME ’N FREGO A ’NA FANCIULLA

COMME ’L VENTO A ’NA BETULLA…

MA GIÀ TUTTO TE SGAÙLLA.

BASTA SOLO ’NA PASSATA

E LA CASA È SPASURÀTA.

PO’ SI ARMANGHI A SPENDOLUCE,

COMME ’N MATTO TE FA ARDUCE;

E SI RESTI SPESOLATO,

PARGHI ’N PORO DISGRAZIATO.

COLCO ARMASTO, O IN CORPACIONE,

PARGHI PURE ’N GRAN COJJÓNE.

ANCHI SU LE CERQUE CÒJJE

E CE FA VENI’ LE DÒJJE.

IO PIO ’L MONDO COMME VÈNE:

SI ME GRULLA, ME STA BENE,

NON ME LAGNO, NON ME DOLGO,

E SI VÈNE BALENÈLLO,

ANCHE SI ME VOL FA’ BELLO,

IO DA LUE NON ME RIBELLO

PUR SE BÓCCO ’NTE L’AVELLO.

NON ME FA NISCIUN DISPETTO,

ANCHI SI STIRO ’L CIANCHETTO…

QUEL CH’HA DA ’NI’ NISCIUNO L’ SA:

ALORA, COMME SE POL FA’?

SOLO ’N SOFFIO È QUESTA VITA…

’NA SGUARDATA ED È SPARITA;

…’NA FINESTRA È QUESTA VITA:

’N’AFFACCIATA, ED È FENITA!

SALVO, POI, AD ARCOMINCIA’,

COCCHI MIA, ’NTE L’ALDILÀ.



                  di Euro Puletti


“BALENELLO”    

(IL TERREMOTO)



Di Euro Puletti



Versione italiana


Quando arriva il terremoto,

Tutti avvolge nel suo moto:

Chi in amore con la moglie,

Chi nel letto con le doglie,

Chi nel suo sonno beato,

Chi a una voglia abbraccicato.

Come fa lenza coi pesci,

Questa esca tutti acchiappa,

Facendoti, come l’altalena,

Oscillar un poco di lato,

Ed un poco in suso e in giuso,

Sembrar bimbo, in culla, chiuso…

Poi ti scuote e ti dondòla,

Bimbo in sen di mamma sola,

Uccell che, sull’antenna, vola.

Terremoto è traditore:

Lui ti passa a tutte l’ore,

Non ti avvisa, non ti avverte:

Bimbo è che si diverte.

Poi, appena tu t’avvedi,

È già ora che decedi.

Quando, poi, passa di notte,

Fa le case tutte rotte:

Qual lesiona, quale scassa,

Poche son che non fracassa.

Ora inclina, ora ribalta,

Ora scuote ed ora assalta.

Una scossa e un gran tremore

che raggelan pure il cuore.

Per le scale, a scapicollo,

Ti rompi l’osso del collo;

Dalla casa, poi, scappato,

Rischi d’essere accoppato:

Nella polvere, un gran botto:

Sulla testa, eccoti un coppo!

Se qualcuno, poi, barcolla

Viene preso a tira e molla.

E, vedendo ciò che ha fatto:

“Ecco- dice- n’esco matto!”…

Se non vien, lui è già venuto:

Tutto il mondo ha, già, abbattuto!

Quando arriva, coi suoi mali,

Sol lo sanno gli animali:

Cane abbaia, l’oca strilla,

Salta il pesce con l’anguilla.

Certe volte, come il lupo,

Lancia pure un urlo cupo,

Certe altre, manda un suono,

Ben peggior del peggior tuono…

Se di tuono lui ha gran voce

Quel che porta è assai più atroce:

Ammazza, acciacca, spacca, pista,

Fa, di danni, lunga lista.

Ma noialtri abbiam le grotte

Ch’ogni terremoto sfotte.

Più esso viene con gran foga,

Più dentro alla grotta sfoga.

È, del Cucco, la gran panza,

Gran cassa di risonanza.

Dopo che passa su noi,

Più non mugghian neanche i buoi.

Se la terra scuote bene,

Zampillar fa tutte vene

E una fonte, ch’era asciutta,

Un gran getto, d’acqua, butta.

Quando credi sia passato,

Lui t’ha ridicolizzato:

Ché rivien di nuovo forte,

Puntual come fa morte;

A nessuno guarda in faccia,

Lui che è brutta bestiaccia.

Se ti dondola ben bene,

Te le fa tremar le vene.

Poi nel mentre ti smanaccia,

Lui ti porta sulle braccia,

Come giovane a ragazza,

Come fa vento a betulla…

Ma già tutto, lui, ti annulla!

Basta, infatti, una passata

E la casa è dissestata.

E se, poi, rimani appeso

Come un matto lui ti ha reso;

E se resti desolato,

Sembri proprio un disgraziato.

Supin, tu, rimasto, o prono,

Proprio a nulla, più, sei buono.

Anche sulle querce coglie

E ci fa venir le doglie.

Io lo prendo come viene:

Se mi scuote, mi sta bene,

Non mi lagno, non mi dolgo,

E se viene lo sgrullare,

Me volendo sfigurare,

Io a lui non mi ribello,

Pur se piombo nell’avello.

Non mi fa nessun dispetto,

Anche se stiro il calzetto…

Nessun sa quel che verrà:

Cosa, allora, si può far?

Solo un soffio è questa vita…

Una ventata ed è sparita;

Una finestra è questa vita:

Un’affacciata ed è finita!

Salvo, poi, a ricominciar,

Cari miei, nell’Aldilà.




“’L MONTE MIO”

Poesia per il Monte Cucco

Più te conosco, e più bene te vòjjo,

Cucco, dolce e amaro, grosso scòjjo:

Comme ’l lume vòl bene da l’òjjo,

Comme la penna vòl bene dal fòjjo,

E, comme, lo stuppino, dal petròjjo;

Comme l’anguilla vòl bene dal fosso,

fusse migno, o, benanche, grosso;

Comme la mosca vòl bene a gavalla,

Comme, la sumara, da la stalla,

E, comme, la vecchia, da la scialla.

Comme ’l romìto vòl bene da la grotta,

Anchi si de la terra resta sotta;

Comme ’l rospo vòl bene da la fanga,

E, comme, l’orto, vòl bene da la vanga;

Comme la gatta vòl bene dal lardo,

E,’l cardelìno, dal piccoso cardo;

Comme ’l fio bòno vòl bene dal patre,

Comme, la fiòla brava, da la matre.

Comme da Cristo jje piaceva la Croce,

Pure s’je déva, pur si da me me da’,

’n gran patimènto, adè, ’n delór che còce.

Monte Cucco, monte zucco, monte crucco,

Monte sciucco, monte mucco, monte gnucco,

Monte da la testa buzza, che ’l gran vento mai scucuzza,

Monte da la testa dura, che più d’ogni tempo dura,

Monte da la capa tosta, Dio, a lasciàtte, si ’n me costa!

Monte che me pia la ruzza da rempi’ ’sta panza buzza,

Da tuppàlla co’ ’sto còre, per rempìtte del mio amore,

E, per po’ chioppa’, volcano, ristregnèndote le mano,

E, per po’ chioppa’, ’nte ’l cielo, pe’ sgarra’, con te, quel velo,

Che c’arpara, ma c’afóga, che ce salva, ma c’acieca,

Che de Dio leva la vista, robba trista, robba trista!

Dàjje, su, monte svanato, dàjje, su, monte sbuzzato,

Dàjje, su, canàjja trista, dai seguìmola ’sta pista,

Famme te da piedistallo, Dio, ’nti occhi, per guardàllo,

Guarda’, prima de le fasce, comme Lue ce fece nasce,

Nasce e cresce, e ce farà, quanno e comme lu’ vorra’,

schioppa’, in due, ’nte l’Aldilà.

Quanno ch’a l’alba, la fronte te se schiara,

Te, Monte Cucco, amo’, me parghi ’nn’ara.



                  Di Euro Puletti




“SU PPE’ ’L MONTE ’NA MATÌNA”

«Gìveno su ppe’ ’1 Monte ’na matìna,

ch’éva fatto la neve e era la strìna,

Carlo de Béla, Alfrèdo e ’1 por Ceccone,

’m po’ più ’n su de le balze del Cesóne.

Le vacche loro èren giti a arpia’

ché giù ppe’ le stalle l’éven d’arporta’.

Ché su ppe’ ’1 Monte, col tempo de neve,

magna’ nn’avrìen poduto e manco beve.

Ma ’nte ’l mèntre ch’essi féveno la sténta

tra i réfeni ch’amucchia la tormènta,

tutto ’n momènto Ceccone mette ’l piede

’nte ’na buga che la neve non fa véde;

ed eccote ’st’omone che sprofonda

drent’a la bocca de ’na buga tonda.

De bracci e mano déce ’na ’largata:

sinnò ’sta storia non l’avrìa arcontata.

Spauràti da ’sta scena, Alfrèdo e Carlo,

tutti e due insieme corren p’aiutarlo,

Chiappàtolo con forza, un per braccio,

fòri l’ tireno, sbianco ch’è ’nno straccio;

1’ lasceno steso sott’a ’na gran fronda

e vann’a véde la buga quant’è fonda;

de tanti sassi che ci hanno buttato,

nisciuno, ancora, ’l fondo ha mai toccato;

s’arconta che ’sta traditóra buga

oltre 1’orìvo de la terra sbuga.

E’ da quel dì, grotta, che te sto a cerca’

ma, ’n so comm’è, tu ’n me te fai altrova’;

sarà solo ’l por Ceccón da l’Aldilà

che, si Dio vòle, me te farà archiappa’.».



                  Di Euro Puletti








“Rubbata dal Chiàcio”


“Amo’ v’arconto de ’na donna cara, che fu portata via da la pinara. Fu su ppe’ l’onde del Fosso Lucaràjjo, ch’avenne, gente, questo grosso guàjjo. Era ’nte ’l lùjjo, del Cinquantanove, che, comme mai, forte, venne a piove... Da Faraone, lavava la sua lana, quann’ecco se sgavìna ’na buriana; e trona e lampa, e tanto l’acqua è grossa, che t’arìmpe tutti i fianchi de ’sta fossa; e giù fa corre, nero, ’n cavalone, che, ’nferocito, pare ’n gran lione. La pora donna, rubbata da ’sto scolo, colomba par che va staccando ’l volo. La spigne l’acqua, nera, e la stragìna, mentre che piagne, la fìjja, poverina: “La mamma mia, la mamma mia che m’ama!...”, mentre s’atacca, de vetrica, a ’nna rama. “Mamma mia”, strilla, co’ l’ultima sua voce, che, muta, la lasciò ’sto fatto atroce. La pinara del Fosso Lucaràjjo sbatte ’sta donna, che pare ’n seme a spàjjo. La ’ngurbia l’acqua, che pesa più del piombo, mentre che ’l Chiàcio la sporta a Colpalombo. Scalza e ’gnuda, l’altrova ’n pescatore, dóppo tre ggiorni passati ’nte ’l delore. Piagne, col cielo, tutta la famìjja, ma, più de tutti, piagnerà la fìjja. Da ’sta fiolétta, la voce, ’nte la gola, solo jj’arvénne per piagne d’èsse sola! ’Sta storia, questa, de dolore antrìsa, da ’na donna, toccò, de nome... Lisa. Pierotti Elisa, ’mojjàta da ’n Bellucci, tu t’arcutìni, del mondo, tutti i crucci. Elisa mia, sposata a ’n Vignarolo, dal falco de la morte presa a volo. ’L nome de quest’òmo era Modesto, e, solo a mentuarlo, torno mesto… Sopre la schina de ’n nero cavalone, hai galoppato da quel de Faraone. Da Faraone, giù, fin’a Colpalombo, de la pinara t’ha ’compagnato ’l rombo. Adène sogni, col sonno de la morte, e sai perché te portò via la sorte, adesso dormi, ninnata dai tuoi cari, da cima al poggio de Torre Calzolari...”.

TRADUZIONE
"Rapita dal Chiascio"

«Or vi racconto di una donna cara, che fu rapita, un dì, dalla fiumara. Fu sopra l’onde del Fosso Lucaraio, ch’avvenne, gente, questo grosso guaio. È il trentun luglio del Cinquantanove, e, come mai, fortemente piove. Da Faraone, lavava la sua lana, quand’ecco si scatena una buriana; tuona e lampeggia, e tanto l’acqua è grossa, che tutti colma i fianchi della fossa; e giù fa correr, nero, un cavallone, che feroce pare un gran leone. Povera donna, rubata da ’sto scolo, colomba par che va spiccando il volo. La spinge l’acqua, nera, e la strascina, mentre, piangente, la figlia, poverina: "La mamma mia, la mamma mia che m’ama!...", mentre s’aggrappa, di vetrice, a una rama. "Mamma mia", grida, con l’ultima sua voce, ché, muta, la lasciò ’sto fatto atroce. La piena grande, del Fosso Lucaraio, sbatte ’sta donna, che pare un seme a spaio. La gonfia l’acqua, che pesa più del piombo, mentre che il Chiascio la scorta a Colpalombo. Spogliata, la ritrova un pescatore, dopo tre giorni passati nel dolore. Piange, col cielo, tutta la famiglia, ma, più di tutti, piangerà la figlia. O figlioletta, la voce, nella gola, sol ti rivenne per pianger d’esser sola! Questa la storia, di dolore intrisa, ch’a una donna, toccò, di nome… Lisa. Pierotti Elisa, congiunta ad un Bellucci, tu ti raccogli, del mondo, tutti i crucci. Elisa mia, sposata a un Vignarolo, dal falco della morte presa a volo. Sopra la schiena d’un nero cavallone, hai cavalcato da quel di Faraone; da Faraone, giù, fino a Colpalombo, della fiumara t’ha accompagnato il rombo… Adesso sogni, col sonno della morte, e sai perché ti portò via la sorte, adesso dormi, cullata dai tuoi cari, in cima al colle di Torre Calzolari…»

                                                                                        Di Euro Puletti


Un ansa del fiume Chiascio





NASCITA E MORTE D’UN FIUME


IL CHIASCIO DENTRO AL TEVERE SI GETTA,

MA LO FA… PLACIDAMENTE, SENZA FRETTA,

IL CHIASCIO, ALLORA, MUORE, E MUORE PIANO,

VICINO A PONTENUOVO DI TORGIANO.

DAL CUCCO E DAL PENNINO L’ACQUA AVUTA,

AL DIVO TEVERE, TUTTA, ESSO TRIBUTA.

A VILLAMAGNA SORGI TU, FIUME DIVINO,

DI GUBBIO ALLE SPALLE DELL’INGINO.

DEL COLLE ELETTO DAL BEATO UBALDO

DALL’UMBRIA NELL’ETRURIA VAI TU ARALDO,

DAL CUCCO AL SUBASIO, PEL PENNINO,

CHIASCIO, RADIOSO È TUTTO IL TUO CAMMINO!

IL CHIASCIO È ’L MARE NOSTRO,

CHE NAVE FANTASIA SOLCA COL ROSTRO,

IL CHIASCIO È UN MARE, UN MARE CHE CAMINA,

DE FANGA, MORBIDA, SOPRE ’NA GRAN SCHINA…

UN MARE CHE C’HA L’ACQUA SEMPRE NOVA…

FORMATA DA LA NEVE E DA LA PIOVA.

EURO PULETTI





Versione dialettale

Òmini originari


S’era ’nto ’l mezzo del milleducento,
quanno ch’avénne, bòno, quest’evento.
Pecorari, legnaroli e carbonari,
del Castel de Costaciàro Originari,
de liberasse se sènteno smagnósi
dal “giogo greve” dî patrón boriosi
e métteno ’nsième ’l frutto del sudore,
del sangue fatto amaro, e del delóre,
du’ monti comprando, più ’L Porrìno:
tre vèrdi cime del Monte Apennìno,
’L Cucco, Monte Porrìno e Pantanella
ènno ’l principio de ’sta storia bella.
Pietro Òddolo co’ i eredi Monaldelli
décero via questi tre mmonti belli.
’L dìchen pergamene ’n po’ tarmìte,
da notari, con scrùppolo, arfinìte.
’L dìchen pergamene e ’ncartamènti,
istormènti rugati e documènti.
Quî tre mmonti ènno su lo stendardo,
co’ la balestra, ’nsième, e senza ’l dardo,
co’ la balestra, ’nsième, e co’ le stèlle,
de Costaciàro le chiare sentinelle.
Altre terre compramo da ’n conte d’Urbino,
che per “tre pezze de panno gubbino”,
una bianca, l’altre celeste e vèrde,
la propietà de ’tésti monti perde.
Federico, il conte de’ Bandi,
de ’sti lòchi s’antàsca, alóra, i saldi.
Era ’l millequattrocentottantasette
quanno ’l conte ’sti posti ce cedette.

Era l’inizio del milleseicento,
quando ch’avénne ’sto scontro violento.
Francesco Maria, Duca Secondo,
credèndose patrón de tutto ’l mondo,
vòlse accampa’ ’n diritto su ’sto monte,
che solo ci ebbe ’n suo antenato conte.
Alóra manda ’n bon gruppo de guardiani,
co’ l’archibugio tutti su le mani,
cercando da ’mpedi’, che òmo avaro,
che ’l monte fusse più de Costaciàro.
Ma i Costaciaròli de ’na volta,
’nte du’ menuti scendeno ’n rivolta;
ecco, li vedo, s’arduneno, pian piano,
belli ’nguastiti e coi bastoni in mano.
“Si én da mori’, ben sarìmo morti,
vendicando, col sangue, tanti torti.
Spiccando ’l volo, èsteli sul Cucco,
docché se sente, unico, ’n grand’ucco.
Tutti i guardiani bastoneno, ben bene,
uno ad uno moràndojje le vene.
’Sti òmini forti, i guardian del Duca,
métteno ’n rotta, e, presto, ’n fretta e ’n fuga.
’Pena ’visato, Checco de la Rovere,
eccolo a Costaciàr sùbbito piovere.
Vòle fa’ lu’ ’n processo dove i soli,
gastigati saròn Costaciaròli.
Ma, più Costaciaròli, d’api comme ’n favo,
vóleno dritti verso Urbano Ottavo.
’L Papa capisce chi è l’usurpatore
e dî Costaciaròli è ’l salvatore:
“ènno ’sti mostri che v’honno levato,
quello ch’è vostro e ve séte meritato.
Bene ascoltate, e armarréte de stucco:
sempre vostro sarà ’sto Monte Cucco,
e, chi ’n ce crede, la testa io jje stucco.
Ma, commme che la prescia ’n vòl la fuga,
drent’a ’na buga te cade pure ’l duca,
col suo cavallo, e col cappel de feltro,
l’ultimo a vive de quei de Montefeltro.
Per fa’ spari’ d’Urbino i gran patróni,
Costaciàro ricorse da i bastoni.
Per afrancàcce via damo anche le fedi,
liberandoce dai ceppi de ta i pièdi.
De tutti i òmini, la sola volontà,
fu de fonda’ quest’Università.
Apostolica, la reverenda casa,
cercò più volte de fa’ la barba rasa
dei diritti, co’ i secoli ’quistati,
lasciando noi Condòmini “’gnudàti”.
Però, alóra, Apostolica la Càmbera,
’ste terre propio non l’ancàmbera.
’Na montagna, Cucco nominata,
da ’tésti Originari fu ’quistàta:
’na montagna, ’nsième co’ i mulini,
’na caciàra e più terre da vini.
Co’ l’afrancàsse da ’n signore avaro,
fonda’ hon podùto ’l Castel de Costaciàro.
Più de ’nna volta quest’Istituzione
venne ’n soccorso da la popolazione,
la legna de La Pìgnola donando
e ’l forno comunale alimentando.
’Nte la Buga, detta de la Conserva,
de neve noi ci evàmo ’na riserva.
’Na riserva de neve e de ghiaccio
che permetteva dî generi lo spaccio.
Per otto secoli questi belli monti,
con ranchi e cèse, riguardati e fonti,
lavorandoli, l’êm salvaguardati
ed ai fii nostri, intatti, consegnati.
De cento ceppi, che ’n tempo eravamo,
quarantadue, ade’, apéna ne famo.
Del monte, la comune propietà,
dai fiòli maschi damo in eredità.
Tanto utile ’l dominio, che diretto,
esercitamo in modo corretto.
’Nte ’l Medioevo ci évamo ’nno statuto:
’nte l’Ottocento l’émo ariveduto.
In esso è scritto chiaro, co’ l’inchiostro,
nero su bianco, l’imperativo nostro:
«Pubblico l’utile hai sempre da arcerca’,
e non per te i quadrìni ansaccocia’!».
Milleseicento ettari, ade’, c’émo: ’m po’ più
de novecento ènno de boschi,
torsìni faggi, matriàli e foschi,
fanno del monte, da oriente a setentrione,
verdureggiante ’na sola regione.
Pochi ènno i faggeti ad occidente,
perché, del sole, ’l raggio è più cocente:
Faggeto Tondo, Pìgnola e Mandràcce,
fra i prati verdi, le boschive tracce.
Da La Fida fin’al Fosso del Cupo,
docché ’na volta urlava forte ’l lupo,
sopre noialtri svolàzzeno le sbalze,
voli d’aquila ’mmarmìti e de scodàlze.
Sotto de noi, a tanti poco nota,
grossa s’òpre del monte panza vòta,
che, da la cima, arìva giù La Scirca,
sprefondando per mille metri circa.
Toquì è La matre de tutte le vene,
che d’acqua pura potrebbe rempi’ piene,
ogni secondo, centonovanta e ancóra più butìjje,
si messe non ’gn’éssero “le brìjje”.
Da quela parte, docché nasce ’l sole,
eterno, ’n fosso sempre scórre sòle.
A la Fonte nascendo d’Acqua Fredda,
passa La Fida entrando ’nte ’nna stretta,
scòmida e meriggiósa spaccatura,
che a tutti quanti fa ’na gran paura,
che de Rio Freddo Forra è nominata,
anchi si Bocca Nera fu chiamata.
Sott’a le sbalze, ’n convento s’anìda,
jje scorre ai piedi l’acqua de La Fida.
Sopre Segillo c’è ’nna balza scura,
de Le Lecce chiamata Spaccatura.
Sopre ’n poggetto de ’sta sbalza pizzuta,
lo strano Orto ce sta de la Cicùta.
De ’sta sbalza Segillo è ’l sol patróne:
de leccia, gìssimo a fàcce ’l carbone.
Con Segillo litigammo pî confini:
mai più noi l’arfarémo co’ i vicini.
Tra Perugia e Urbino era la lite,
ché noi s’én stati sempre gente mite.
Gente onesta, veri òmini d’onore,
che mai cóveno, ’dormìto, ’n sol rancore.
Tutti eguali noi sémo ’nte ’l Concorzio,
ché, col classismo, ci émo fatto divorzio.
De noi nisciuno a l’altro è superiore,
dal profesore a l’ultimo pastore.
Su ppe’ ’ste cime, ch’ènno state “are”,
pàscere podémo e, anchi,… “legnàre”!.
De legna ciascheduno ha la sua parte,
del boscaiolo conoscendo l’arte.
Condòmine fu anchi ’l gran Tomàsso,
che la sua vita, sott’a l’alto sasso,
tutta la spese facendo la dieta,
del mondo rifiutando la moneta.
De la famìjja ’l Beato era Grasselli:
tutti Condòmini, bravi bòni e belli.
Per terre podémo gi’, per monti e mari:
fieri noi sémo d’èsse… “Originari”!

di Euro Puletti    

Versione italiana

UOMINI ORIGINARÎ

S’ERA NEL MEZZO DEL MILLEDUECENTO,
QUANDO CHE AVVENNE, LIETO, QUEST’EVENTO.
PASTORI, BOSCAIOLI E CARBONARI,
DEL CASTRUM COSTACCIARII ORIGINARÎ,
DI LIBERARSI SOL DESIDEROSI
DAL “GRAVE GIOGO” DI SIGNOROTTI ESÒSI
MISERO INSIEME IL FRUTTO DEL SUDORE,
DEL SECOLARE SANGUE E DEL DOLORE,
DUE MONTI COMPRANDO, PIÙ IL PORRÌNO
CON “TRE PEZZE DE PANNO GUBBINO”.
PER AFFRANCARSI VENDETTERO LE FEDI,
LIBERANDOSI DEI CEPPI STRETTI AI PIEDI.
IL CUCCO, MONTE PORRÌNO E PANTANELLA
FURON L’INIZIO DI QUESTA STORIA BELLA.
PIETRO ÒDDOLO ED EREDI MONALDELLI
DETTERO VIA QUESTI TRE MONTI BELLI.
L’ATTESTANO PERGAMENE UN PO’ TARMATE,
DA NOTAI, CON SOMMO SCRUPOLO, VERGATE.
LO DICON PERGAMENE E INCARTAMENTI,
ISTROMENTI ROGATI E DOCUMENTI.
QUEI TRE MONTI SON SULLO STENDARDO
CON LA BALESTRA INSIEME E SENZA IL DARDO,
CON LA BALESTRA INSIEME E CON LE STELLE,
DI COSTACCIARO LE CHIARE SENTINELLE.
DI TUTTI GLI UOMINI, LA SOLA VOLONTÀ,
FU DI FONDARE QUEST’UNIVERSITÀ.
APOSTOLICA, LA REVERENDA CASA,
TENTÒ PIÙ VOLTE DI FAR TABULA RASA
DEI DIRITTI COI SECOLI ACQUISTATI,
LASCIANDONE I CONDÒMINI SPOGLIATI.
UNA MONTAGNA, CUCCO NUNCUPATA,
DA QUESTI ORIGINARÎ FU ACQUISTATA,
UNA MONTAGNA, INSIEME A DEI MOLINI,
UNA “CACIÀRA” E PIÙ TERRE DA VINI.
PER SBARAZZARSI DI SIGNORI AVARI
FONDARE VOLLERO IL CASTRUM COSTACCIARII.
PIÙ D’UNA VOLTA QUESTA ISTITUZIONE
VENNE IN SOCCORSO ALLA POPOLAZIONE,
LA LEGNA DELLA PÌGNOLA DONANDO
E IL FORNO COMUNALE ALIMENTANDO.
NELLA BUCA, DETTA DELLA CONSERVA,
DI NEVE TENEVAMO UNA RISERVA.
UNA RISERVA DI NEVE E DI GHIACCIO
CHE CONSENTISSE DEI GENERI LO SPACCIO.
PER OTTO SECOLI QUESTI BELLI MONTI,
CON “RANCHI” E “CÈSE”, “RIGUARDATI” E FONTI,
LAVORATO ABBIAMO E SALVAGUARDATO
ED AI POSTERI, INTATTI, CONSEGNATO.
DI CENTO CEPPI, CHE UN TEMPO ERAVAMO,
QUARANTADUE RESTATI, ADESSO, SIAMO.
NEL MEDIOEVO AVEMMO UNO STATUTO:
NELL’OTTOCENTO LO ABBIAMO RIVEDUTO.
IN ESSO È SCRITTO CHIARO, CON L’INCHIOSTRO,
NERO SU BIANCO, L’IMPERATIVO NOSTRO:
«PUBBLICA UTILITÀ DEVI CERCARE,
NON MAI IL VANTAGGIO TUO PARTICOLARE!».
MILLESEICENTO ETTARI ORA ABBIAMO:
BEN PIÙ DI NOVECENTO SON DI BOSCHI,
SOLENNI FAGGI, COLONNARI E FOSCHI,
FANNO DEL MONTE, DA ORIENTE A SETTENTRIONE,
LUSSUREGGIANTE UN’UNICA REGIONE.
POCHI SONO I FAGGETI AD OCCIDENTE,
PERCHÉ DEL SOLE IL RAGGIO È PIÙ COCENTE:
FAGGETO TONDO, PÌGNOLA E MANDRÀCCE,
FRA I PRATI VERDI, LE BOSCHIVE TRACCE.
DALLA FIDA FINO AL FOSSO DEL CUPO,
DOVE UNA VOLTA ULULAVA IL LUPO,
SOPRA DI NOI VELEGGIANO LE RUPI,
VOLI D’AQUILA IMPIETRITI NEI DIRUPI.
SOTTO DI NOI, A MOLTI AFFATTO ESTRANEA,
VASTA S’APRE REGIONE SOTTERRANEA.
CHE DALLA CIMA ARRIVA GIÙ ALLA SCIRCA,
SPROFONDANDO PER MILLE METRI CIRCA.
QUI C’È “LA MADRE DI TUTTE LE VENE”,
CHE D’ACQUA PURA POTREBBE FARE PIENE,
OGNI SECONDO, QUASI MILLE BOTTIGLIE,
SE MESSE NON GLI FOSSERO LE BRIGLIE.
DALLA QUELLA PARTE DOVE NASCE IL SOLE,
ETERNO, UN FOSSO SEMPRE SCORRER SUOLE.
ALLA FONTE NASCENDO D’ACQUA FREDDA,
PASSA LA FIDA ENTRANDO IN UNA STRETTA,
PRECIPITE ED OMBROSA SPACCATURA,
CHE A TUTTI E OGNUNO FA GRANDE PAURA,
CHE DI RIO FREDDO FORRA È NOMINATA,
ANCHE SE BOCCA NERA FU CHIAMATA.
SOTTO LE BALZE UN EREMO S’ANNIDA,
GLI SCORRE AI PIEDI L’ACQUA DELLA FIDA.
SOPRA SIGILLO C’È UNA BALZA SCURA,
DELLE LECCE CHIAMATA SPACCATURA.
SOPRA UN POGGETTO DELLA BALZA PIZZUTA,
LO STRANO ORTO CI STA DELLA CICÙTA.
DI QUESTA BALZA SIGILLO È IL SOL PADRONE:
DI LECCIO, ANDAMMO PER FARE IL CARBONE.
SU QUESTE VETTE, CHE FURONO ARE,
PÀSCERE POSSIAMO ATQUE LEGNÀRE.
DI LEGNA CIASCUNO HA LA SUA PARTE,
DEL BOSCAIOLO CONOSCENDO L’ARTE.
PER TERRE POSSIAMO ANDAR, PER MONTI E MARI:
D’ESSERE SIAMO FIERI... “ORIGINARΔ!


                                      di Euro Puletti






“La storia de ’n fiòlo scervelàto”

Ovverosia la parabola evangelica del Figliòl pròdigo resa in dialetto costacciarolo-villante

di Euro Puletti

’N’òmo c’éva du’ fii. Quello giovine, ’n giorno, jj’ha fatto: «O, ba’, dàteme, ’m po’, la ròbba che tòcca da me. Alóra, ’l patre, spartì la ròbba sua tra i du’ fii. Dóppo ’m pezzetto, arcutinàto quel che c’éva, ’l fio più giovine gède via de casa. ’Nte ’l paese, docché s’era fermato per aloggia’, campava commo ’n signore, e, a la fen fine, da lu’, gn’armàse più manco ’n quadrino ’nte le sacòcce. E, dóppo che ’n c’èva più ’n cavolo, arivò anchi ’na gran brùscia, e, lu’, alóra, t’ataccò a patì anchi la fame. Alóra je toccò gi’ per garzone da uno de quelli che stéveno tolà. Amo’, per tira’ avanti, gède a para’ i maiali a ghianda, del più ricco del paese, e c’éva tanta fame ch’averìa magnato anchi la ghiande, ma ’gne la déva nisciuno; ’ntanto arpensava da i servi del patre, che podéveno magna’ e beve, mentre che lue crepava de fame. Alóra, pensò d’argìsse a casa e de di’ dal patre: «O, ba’, so’ stato tristo con vo’ e col Patreterno, e ’n c’ho più còre da chiamàmme fio vostro, ma arpiàteme l’istesso drent’a casa vostra, magàra comme ’n garzone». E, ’nte ’n mezz’a ’sti pentimènti, ambiffò la strada de casa. ’L patre, comme che ’l vidde artorna’ de lógne, jje gède ’ncóntra e jje fece ’na gran scacciavillata, l’abbracciò e jje diede bacio. E, alóra, ’sto pòr fio, j’arispose: «O, ba’, so’ stato catìo con vo’ e col Patreterno, e ’n c’ho più còre da chiamàmme fio vostro, ma arpiàteme uguale ’nte ’n casa, magàra per garzone vostro». Alóra, ’l patre, ha ditto da i servi sua: «Portàtejje la muta bòna e mettétejjela, mittétejje anchi l’anello dal déto e le scarpe nòve da i pièdi, e, ppo’, piàte ’n vitello bell’e grosso, e scannàtelo, e magnamo e famo festa, perché ’sto fio mio era morto, e, ade’, s’è rinvistato, l’éo fatto perso, e,’nvece, l’ho altrovato.

Alóra, t’ataccòrno a fa’ gran festa da ’sto frégo, che, prima, s’era ’nciornachìto, ma, dóppo, t’éva armésso giudizio. Però, ’l fio più grosso, ch’era gito là ppi’ campi a fatiga’, mentre che s’arnìva, sente a sona’ e a balla’. Alóra, dóppo, ch’éva dato ’n chiamo da ’n servo, jje disse: «Que sucède tutto ’sto rimóre? È arnuto fratèlleto, e bàbbeto jja fatto ’mazza’ ’l vitello più grasso, perché ’sto fiòlo è artornato salvo e fischiardo». Alóra, ’l fio più grosso s’è tutto ’nguastìto e nn’éva manco più vòjja da bocca’ ’nte ’n casa, e, dal patre, che, ’nte ’n quel mèntre, era scappato fòri per fallo entra’, jja ’taccato a di’: «O, ba’ è da quel di’ che sto con vo’ e v’ho dato sempre retta, e, da vo’, ci ho preso sempre specchio, e, vo’, per contracàmbio, ’n m’éte dato mai manco ’n capretto téndero per magnàmmelo co’ jj’amichi mia, e, amo’, che v’è artornato ’sto scervelàto de mi’ fratello, che ve s’ha magnato tutto co’ le belinciàne, jje ce ’mazzate sopre anchi la bestia più bella». E ’l patre, dal fio: «Fiòlo mio, te, sai armasto sempre con me, e tutto quel che c’ho è ròbba tua, ma, adène, tòcca sta’ alègri e èsse contenti, perché è arnuto fratèlleto, che l’éo fatto morto, e, ppo’, s’è rinvivito, che l’éo fatto perso, e, ppo’, m’è arcapitato.


                                                                                                                            Di Euro Puletti





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