IL MONTE CUCCO:
LUOGO DI PERENNE E SERRATO
CONFRONTO TRA IL BENE E IL MALE 1


Ricerca etno-antropologica sulle tradizioni, credenze, leggende e
superstizioni popolari nell'area del Monte Cucco (Umbria, Perugia) 2





di Euro Puletti


«Salvatico è quel che si salva».3

Leonardo da Vinci


«Amo ’l cielo co’ la sua grande forza, e tutto quel che de raggiùngelo se sforza […]».


«Quanno cojjéte le nnèspole piagnéte, perch’è l’ultimo frutto ch’averéte […]».


Presentazione

Il Diàntene, un essere intermediario tra il bene e il male

Diàntene.4 Dietro questo nome arcano e suggestivo, arcaico e strano, si cela un personaggio di pura fantasia, di mera invenzione dell’autore; un abitatore fantastico del Monte Cucco, una sorta di Pan nostrale, un satiro rustico e bonario, protetto, per millenni, dalle inestricabili macchie della montagna e protetto dalle sue mille, misteriose grotte.

Il Diàntene è uno di noi, è un essere alla mano che beve vino e mangia prosciutti, ma ha un “gravissimo difetto”: dice sempre la verità. Per questo è braccato, e, appunto per questo, ha scelto la vita solitaria, lui, proprio lui che amerebbe, al contrario, le allegre comitive e le belle… “figliuole”. Ma anche queste ultime, ahilui, lo fuggono sempre, atterrite dal suo orripilante aspetto, che, in realtà, cela, come in Bertoldo, un… « […] tant’alto e nobile intelletto».

Come l’uomo, il Diàntene, può essere visto quale medium privilegiato tra il mondo infero e quello celeste; esso incarna, infatti, la riuscita conciliazione tra abilità, furbizie e poteri tipicamente demoniaci e doti, virtù, slanci più squisitamente umani, anzi, spesso, del tutto angelici.


Introduzione

Questo lavoro vuole essere il tentativo di salvare dall’oblio almeno una parte di quella gran messe di nomi della natura e di tradizioni e credenze popolari, che, tràdite oralmente, la civiltà agricolo-pastorale ha concepito, usato e perpetuato nel volgere dei secoli.

In questi umili nomi, in tali credenze, detti e proverbi (alcuni dei quali, peraltro puntualmente segnalati da asterisco, occorre doverosamente sottolinearlo, sono stati ideati dall’autore, prendendo, però, fedelmente spunto da denominazioni specifiche o più generiche e vaghe credenze popolari) è stratificata la cultura di generazioni di uomini. In essi sono racchiuse tutte le loro esperienze: la gioia come il dolore, l’esaltazione come la tragedia.

Tutto questo patrimonio millenario rischia ora di scomparire per sempre, poiché la civiltà che concepì queste produzioni di cultura sta inesorabilmente indietreggiando, sotto i sempre più poderosi colpi di maglio, vibràtigli da una società ingrata ed immemore.

Scomparendo gli oggetti d’uso, sparisce anche la necessità di denominarli; venendo meno il contatto con la terra, si perde la familiarità degli esseri e delle cose che essa ospita.

Le manifestazioni della natura appaiono ora distanti, incomprensibili, paurose. Ma è l’indifferenza, se non addirittura il disprezzo, il sentimento dominante nei riguardi di quella terra, che, seppure dura, aspra, e a volte perfino matrigna, non ha negato mai la sopravvivenza a generazioni di contadini e pastori.

Quando non si ha più contatto con le cose esse ci appaiono vieppiù “informi e vuote” e si perde anche il criterio che consente di distinguere rettamente le mille sfaccettature di cui esse sono costituite. Così è per la terra che oggi appare, ai più, piatta, informe, indistinta realtà. Non la si vuole e non la si può conoscere, perché, per farlo, occorrono virtù rare: l’umiltà e l’entusiasmo, la riconoscenza e la venerazione verso un mondo del quale, lo vogliamo o no, tutti noi siamo figli.

La terra resta così negletta ed innominata.

Noi abbiamo cercato di ridare un nome ad ogni essere ed ad ogni cosa della natura, ridando la parola a coloro ai quali per troppo tempo non è stato consentito di usarla, vite senza nome nella storia: gli ultimi contadini e gli ultimi pastori di questa porzione di terra umbra, distesa tra il Monte Cucco e il Fiume Chiascio da una parte, il Monte Catria e il Torrente Sentino, dall’altra.


Area, flora, fauna lineamenti storici, metodologia d’indagine e di intelligenza del testo

L’area di indagine comprende, come già accennato, il Parco Regionale del Monte Cucco, un territorio piuttosto omogeneo, sia sotto il profilo linguistico e culturale, sia sotto quello geografico e geomorfologico. Situato nell’Alta Umbria appenninica, a stretto contatto con le Province di Pesaro ed Ancona nelle Marche, il Parco, istituito con la Legge Regionale n° 9 del 1995, comprende essenzialmente i territori montani ed alto-collinari dei comuni di Scheggia, Costacciaro, Sigillo e Fossato di Vico.

Il Parco di Monte Cucco rappresenta un’area di straordinario interesse naturalistico. Il suo Massiccio, di natura prettamente calcarea, è costituito da quattro cime principali: Monte Cucco (m 1566); M. Le Gronde (m 1373); M. Motètte (m 1331) e M. Ranco Giovannello (m 1158) e conserva emergenze geologiche di rilevanza nazionale. La sua grotta, innanzi tutto, che raggiunge una profondità di ben 929 metri e la Forra di Rio Freddo, che, stretta tra pareti calcaree di centinaia di metri, ha uno sviluppo spaziale di circa 3 chilometri.

La flora e la vegetazione del Parco presentano, poi, molte specie rare: il Cotognastro meridionale, il Mughetto, l’Èfedra maggiore, il Crespino, l’Aglio siculo, la Balsamina, il Corbezzolo, le Lacrime di Giobbe, l’Alloro, la Quercia pseudosughera, ecc.

La fauna, che la secolare pressione antropica ha purtroppo impoverito, sia in termini di specie presenti che per quanto concerne la consistenza delle relative popolazioni, continua comunque ad annoverare rappresentanti di grande significato ecologico: il Lupo, il Gatto selvatico, l’Aquila reale, il Falco pellegrino, il Merlo acquaiolo, il Geotritone, la Salamandrina dagli occhiali, ecc.

La presenza di quell’importante asse viario che è tuttora la via Flaminia dovette agire da elemento catalizzante nei confronti dell’insediamento umano nelle zone situate alle falde occidentali della catena appenninica. Sorsero così, forse sviluppandosi da precedenti stanziamenti umbri, centri abitati di una qualche importanza storica. E tali dovettero essere se furono considerati degni di comparire in alcuni Itinerarii dell’antichità.

La Tabula Peutingeriana del 170 o 200 d.C., ad esempio, ci attesta la presenza di Halvillo (altrove Helvillum5), un vicus, oggi storicamente continuato dall’abitato di Fossato di Vico.

Da Helvillum si dipartiva un importante diverticolo della via Flaminia che conduceva verso l’Adriatico: il Diverticulum ab Helvillo-Anconam.

Sempre nella Tabula Peutingeriana, l’antica Scheggia è stata identificata con la statio di Ad Ensem.

In altri documenti scritti si citano i suillates6, abitanti il municipio di Suillum, continuato, nel nome, dal poleonimo Sigillo7.

Non sappiamo nulla, invece, dell’insediamento romano corrispondente all’odierno Costacciaro. Una qualche importanza quest’area doveva pur averla se vi sorse un bel mausoleo allineato all’antica Flaminia. Il monumento funerario illustre è ricordato tuttora dall’idronimo Fosso de Musolèa, indicante l’alto corso, “inforrato”, del torrente Fossa Secca.

Gli insediamenti romani citati dovettero tutti subire più o meno profonde devastazioni in seguito alla discesa di popolazioni di ceppo germanico ed arabo8 tra i secoli V e IX9.

La gloriosa consolare Flaminia, che forse sin da epoca umbra aveva calamitato l’insediamento e favorito gli scambi economici e culturali, divenne così il veicolo privilegiato per le scorrerie dei Germani10 che impressero tracce indelebili nella toponomastica di tante delle nostre zone. Toponimi di inequivocabile origine germanica come Casa Bionda, Caggio Molino11, Balza Berlingana, Col de Ranfo, Casa Col di Golfo stanno a testimoniare la profondità di quest’impronta di cultura.

Nel secolo VI il territorio in esame fu probabilmente interessato da uno degli eventi bellici maggiormente decisivi per le sorti della nostra penisola: la battaglia di Tagina. In questo, che fu anche uno scontro fra differenti civiltà, i Romano-Bizantini sconfissero l’esercito ostrogoto di Totila nei pressi di Gualdo Tadino, determinando così la definitiva cessazione del dominio gotico in Italia (552 d.C.). La fascia appenninica comprendente le nostre zone fu attraversata da quel cordone ombelicale che consentì la perpetuazione del privilegiato rapporto tra Ravenna, sede dell’Esarcato, e la Roma dei Papi: il Corridoio bizantino. L’esiguità territoriale del Corridoio in questo punto dovette però far sì che il suo confine venisse più volte ritoccato a spese ora dei Longobardi, ora dei Bizantini.

Il versante marchigiano dell’Appennino doveva essere infatti a quell’epoca in mano ai Longobardi, mentre Scheggia e Costacciaro, con la vicina Gubbio, dovettero rimanere, seppure con qualche probabile interruzione, sotto l’influenza bizantina12.

Fossato di Vico dovette conoscere più incerti destini “geo-politici” se, come si sostiene da certuni13, sulle sue montagne doveva correre il confine occidentale del Ducato longobardo di Spoleto.

Alcune costruzioni fortificate, ormai allo stato di rudere, potrebbero essere infatti, inquadrate in questa prospettiva, interpretate come presidi militari a guardia del Corridoio bizantino o del Ducato spoletino.

Poco sappiamo dei secoli altomedioevali e quasi nulla delle incursioni arabe. I Saraceni, nel secolo IX, dovettero effettuare alcune devastanti scorrerie anche nell’Italia centrale14.

Della influenza araba sul piano linguistico-toponomastico non ho rilevato alcuna traccia inequivocabile se non, forse, quella impressa nel toponimo Mongibello15, designante una parte del colle su cui sorge Colbassano, frazione di Fossato di Vico.

E’ infatti probabile che il toponimo sia composto da due termini, formanti una tautologia, il latino mons, “monte” e l’arabo gabal, “monte”16. Mongibello è l’altro nome dell’Etna.

La continuità dell’insediamento nell’alto Medioevo dovette essere affidata a castelli feudali, esercitanti uno stretto controllo sulle terre del contado: il Castrum Glere, il Castrum Turris Ulmi, il Castrum Tieghi, ecc.17

Il controllo economico sul territorio fu appannaggio anche di congregazioni monastiche, come gli Avellaniti, che possedevano un’abbazia a Costacciaro: S. Andrea dell’Isola. Il monastero benedettino dell’Isola dei Figli di Manfredo dovette conoscere una certa importanza se, a quanto pare, ebbe per un certo periodo alle sue dipendenze l’antica abbazia gualdese di S. Donato18.

Toponimi come l’ormai desueto La Cèsa dei Frati, sulla montagna sigillana, ’L Campo dei Frati, sulla montagna di Montebollo, L’Ara dei Frati, sul Monte Le Gronde ci testimoniano l’influenza economica esercitata nei secoli dagli ordini monastici sul nostro territorio.

Antichissime pievi rurali, come S. Paterniano di Scheggia, S. Andrea di Sigillo, S. Maria della Ghea di Purello dovettero contribuire attivamente al controllo politico-economico del territorio.

Su un muro di Costacciaro si conserva una pietra arenaria sulla quale è scolpita, in bassorilievo, l’immagine di un gatto. Sopra di essa figurano alcune sibilline parole. Il manufatto potrebbe rappresentare un possibile vestigio scultoreo d’epoca altomedioevale, forse proveniente dal castello dell’Isola dei Figli di Manfredo. Questo, almeno, è quanto suggerisce un’ipotesi avanzata dall’illustre studioso di epigrafia latina Bartolomeo Borghesi, il quale, passando per Costacciaro agli inizi del XIX secolo, commentò con le seguenti parole l’iscrizione scolpita sulla pietra: “Queste sono le vostre voci avanti il mille... Ma le parole sono di quella nostra vecchia lingua, che i Provenzali chiamarono romanesca19” (cors. agg.).

Con la nascita dei Comuni, i feudatari furono poco a poco spossessati delle loro terre che entrarono a far parte di un più vasto sistema economico-militare: il Comitato. Molti castelli, torri e fortilizi furono consolidati e, muniti di aggiuntive fortificazioni, contribuirono validamente alla difesa del più attivo Comune delle nostre zone, quello di Gubbio. Così, intorno alla metà del XIII secolo, nacque o fu ampliato e consolidato il Castrum Costacciarii, entrò sotto l’influenza eugubina quello di Fossato, fu motivo di contrasti tra Gubbio e Fonte Avellana quello di Scheggia. Nel 1300 anche il castello di Scheggia entra a far parte dei possedimenti del monastero di Fonte Avellana.

Diversa sorte toccò a Sigillo che, dal Medioevo, entrò sotto la sfera d’influenza di Perugia, influenza che durò sino al 1816. Lo stemma del Comune, il grifo bianco rampante, sta tuttora a testimoniare questa lunga dipendenza storica.

Monaldo, conte di Nocera, fondò un castello nei pressi dell’attuale Fossato già nel 980. Successivamente, l’abitato figura fra i possedimenti del monastero benedettino di S. Maria d’Appennino. Nel 1208 Fossato entra nella sfera d’influenza politica di Perugia.

Nel XV secolo Scheggia e Costacciaro furono attratte nell’orbita del Ducato d’Urbino. Costacciaro assunse allora un rilevante ruolo strategico di avamposto meridionale del territorio ducale. E’ per questo che fu munito di uno splendido rivellino, opera insigne di Francesco di Giorgio Martini.

Col passaggio dei possedimenti ducali allo Stato della Chiesa, sia Scheggia (1624) che Costacciaro (1631) seguirono la medesima sorte.

In questo lavoro abbiamo registrato, infine, anche talune voci, tradizioni, storie, credenze ed espressioni dialettali dell’area eugubina e, ciò, per il fatto che esse si riscontrano, seppur sporadicamente, nelle parlate dei paesi della zona occidentale del Parco, storicamente soggetti, seppure in modi e tempi anche assai differenti, all’influenza di Gubbio.

La metodologia d’indagine si è basata sull’intervista in dialetto, soprattutto a vecchi contadini della zona o, comunque, a gente profondamente radicata e nella propria terra e nella propria cultura e notevolmente esperta, per tradizione di famiglia, di cose agricole e pastorali. Ad essi, in una atmosfera di profonda cordialità e amicizia (tutti gli intervistati erano nostri vecchi conoscenti), abbiamo rivolto una serie di domande circa la presenza di storie, leggende, credenze, e picciafavole nella loro zona. La dialettologia, in questo lavoro, ha strettamente affiancato le scienze antropologiche ed in più di un caso sono state chiavi linguistiche quelle che ci hanno consentito di giungere a precise determinazioni in campo etnologico. Questa osmosi di conoscenze, derivanti da discipline diverse, ci ha dimostrato, una volta di più, quanto innaturali siano le barriere interposte tra le varie branche dello scibile umano e quanto, nella cultura e nella conoscenza, siano importanti e, diremmo, fondamentali i paralleli e i ricorsi frequenti a fondamenti, metodi e dottrine, propri dei più disparati settori della conoscenza umana.




Monte Cucco: un serrato confronto tra luoghi negativi e regressivi

e plaghe positive, favorevoli e loci amoeni

La tradizione orale popolare dell’area di Monte Cucco indica la presenza d’alcuni luoghi infernali a cui se ne contrappongono altri che si contraddistinguono per esercitare benefiche influenze sull’uomo. Tanto per fare un esempio eclatante di questa perenne polarità, citeremo I Cinque Spacchi20 del Diavolo e l’Eremo di Monte Cucco, o, ancor meglio, La Grotta del Beato Tomasso; La Croce dei Fossi (sito di triplice confluenza di corpi idrici) e La Forca dei Fossi o Forchetta dei Fossi (luogo di confluenza di due corsi d’acqua). Presso Le Croci dei Fossi (due ne sono presenti al Monte Cucco) si intersecano e si concentrano numerose influenze negative: vi sono “giardini del diavolo, scarpe del diavolo, porte dell’inferno, luoghi di convegno notturno di streghe e stregoni, tane di lupi”. Attorno alle Forche (Forchette, o Inforchette) dei Fossi, luoghi di coincidentia oppositorum, ecco, invece, coalizzarsi le forze positive ed ubicarsi, numerosi e con disposizione “stategica”, i presìdi contro gli agguati del male. In questi loci amoeni sorgono, infatti, abbazie (Sant’Emiliano in Congiùntoli, Badia di Ràsina), Maestà, Mastardùcce e Mastradèlle, vale a dire edicole della Vergine (Maestà Confìbio, vale a dire ‘edicola della Madonna che sorge presso la confluenza’. Il termine idrotoponimico Confìbio risale, infatti, alla contrazione dei termini latini cum, ‘con, insieme’ e fluvius, ‘corso d’acqua’).

Alle grotte degli eremiti, che fanno la guardia agli accessi del mondo delle tenebre, perché queste non dilaghino ad inondare la terra, si contrappongo, neri coni d’ombra, le tane abitate dai feroci lupi, siano essi animali reali, o uomini votàtisi ad una vita fatta di costumi ferini e vissuta di rapina (briganti, banditi, ladri, che hanno lasciato impronte incancellabili nella speleonomastica locale).

Alcune valli sono caratterizzate da valenze spiccatamente negative, mentre, altre, da aspetti più decisamente benefici: fra le prime si annovera quella del Torrente delle Gorghe, a monte di Sigillo, con l’imponente Spaccatura delle Lecce, che, secondo alcune tradizioni dòtte, sarebbero stati gli dei inferi Plutone o Vulcano a forgiare quale gigantesca incudine. Su di un ripiano di tale balza rocciosa sorge il cosiddetto Orto della Cicuta, un luogo per eccellenza malefico, come testimonierebbe, tra l’altro, l’abbondante presenza della citata pianta velenosa. Una valenza negativa deriva a questa valle dall’essere attraversata da una netta e profonda fenditura, simbolo patente di forze, che, tanto poderose quanto misteriose, vollero creare un elemento di perenne divisione nell’omogenea continuità di questa montagna. A tale valle, per così dire infera, si contrapporrebbe la gola calcarea della Foce de Sòmbo, abitata dalla buona Capra Bergólla, che difende i bambini dai pericoli incombenti. Il luogo dovette essere considerato d’influenza positiva sin dalla più remota antichità, visto che allo sbocco della valle fu eretto il Tempio di Giove Appennino, e, nelle vicinanze, sorsero ben due romitori: quello del Monte di Santa Maria e quello dell’Ara di San Maffeo. Alla benefica Capra Bergólla si oppone la malefica Capra ’Gnuda, che vive laddove «’l monte suda», per l’orrore di dover ospitare un simile mostro. La duplice valenza, negativa e positiva ad un tempo, di queste capre immaginarie rispecchia certamente, da un lato la grande dannosità delle capre lasciate al pascolo brado, poiché con il loro dente “velenoso e mortale” inaridiscono e desertificano rapidamente il territorio sul quale sono insediate, mentre, dall’altro, la grandissima utilità della loro carne, delle loro pelli, e, soprattutto, del loro dolcissimo e leggerissimo latte, che può sostituire addirittura quello d’una donna. Altri luoghi regressivi sono le profonde ed oscure forre, i cui lividi o limpidi torrenti si invorticano in profondi ed insidiosissimi gorghi (o “marmitte dei giganti”), come Il Gorgo de l’Inferno, nella Forra di Rio Freddo, che si contrappone al rassicurante Gorgo Marino, presente lungo lo stesso corso d’acqua. Posti insidiosi e malefici sono le valli, in cui “non batte mai il sole”, le molte valli oscure, simbolicamente opponentisi alle valli chiare o chiarevalli.

Nel pressoché sterminato campo dei fenomeni speleologici, manifestantisi per ogni dove sul Monte Cucco, si rinviene, ancora una volta, la citata dualità conflittuale tra il bene ed il male. Alla Grotta Bianca, ad esempio, asciutto, pulito e sicuro rifugio per eremiti e pastori, si contrappongono le atre, anzi atroci, Grotta Nera e Bocca Nera, voragine-inghiottitoio, quest’ultima, sempre pronta ad ingollare uomini e bestie. Al lucore quasi niveo della Grotta Bianca (e anche della grotta eremitica che ha nome La Cappella) si oppone anche lo squallore nero cupo delle varie grotte denominate Il Forno, che sembrano come voler ragione della luce esterna che confina le loro tenebre, costringendole in uno spazio troppo angusto, in una “buiósa” prigione di roccia.

Orlando paladino, che, portatore della civiltà e defensor fidei, in sella al suo cavallo bianco, combatte strenuamente contro il male, brandendo e facendo roteare la sua formidabile durlindana, che manda mille lampi di luce, è continuamente sopraffatto, sia sul Monte Cucco, sia sul Monte Catria, dalle forze del male, ora incarnate dal Gigante Sanìa, ora dal Gigante Golìa, ora da Satana, ora da un misterioso e brutale esercito nemico.

Il diavolo è ovunque uguale a se stesso nel compiere il male, tuttavia esso assume lineamenti comportamentali singolarmente delineati, a seconda che abiti sul Catria, sul Mutètte o sul Cucco.

Un generale verdetto di parità sembrerebbe poter essere emesso al termine della “singolar tenzone” tra bene e male, disputàtasi nella terra del Cucco, Cucco, che è, esso stesso “essere minerale” infero e ctonio, poiché cela profondissime grotte, ma, al contempo, superno ed uranico, poiché con la sua alta cima si sforza di toccare il cielo. Esso, per il popolo, è sempre stato un vulcano e dalla sua nera bocca dovranno, un giorno, necessariamente di nuovo eruttare i magmi incandescenti dell’inferno. Esso, però, con il suo ventre “svanato”, con il suo grande “grembo” quasi materno, è sempre lì, pronto a proteggere le popolazioni che “soggiacciono” ai suoi piedi, a far “isfogare” al suo interno i terremoti più distruttivi, soffocando, per giunta, i pestilenziali fiati del diavolo, con il racchiuderli ermeticamente in se stesso.

Così avverrà, secondo un’inveterata tradizione orale popolare, anche al momento della “finazione del mondo”, quando il Cantone (o Cantùccio) di Gubbio sarà l’unico lembo di crosta terrestre ad essere risparmiato dal Dies Irae. Questo l’epilogo della storia millenaria delle popolazioni del Cucco, che questo spazio geografico hanno dissodato, lavorato, modellato, amato, odiato umanizzato. Alla fine del mondo, il bene trionferà solo qui, e ai pochi, superstiti eletti sarà dato in premio d’avere salva la vita e di continuare a ristorarsi all’ombra fresca e rassicurante della “mela conventina” (‘la mela del convento’, di questo ‘vivere insieme’ all’ombra tutelare del Monte Cucco), un melo del bene e della salvezza che si contrappone a quello edenico della perdizione ed al Pero del Diavolo di Isola Fossara.







LA POLARITÀ POSITIVA


Le grotte del Monte Cucco ed il fenomeno eremitico tra storia e tradizione orale popolare

Il Beato Tomasso, genius loci del Monte Cucco

Sant’Agnese da Costacciaro, un’eremita dal marcato carattere popolaresco

D.: Le cèrque mai meràngole nn hòn fatto21 e, pianta vecchia, ’n s’arindrìzza22 affatto. Cèrqua più grossa, che mai nn ha fatto ghianda,23 trovàlla la potrai do’ se comanda.24

Sti posti tanto èron politi che ce dormiveno i Santi coi romiti. Se dice che San Giròllimo dottore ’nte ’ste bughe ce passò diverse ore.25 M’arcordo, poi… ce fece penitenza… quel Tomasso, sesant’anni in sofferenza. Cantava tutto ’l giorno, e ’n c’éva gnènte e ’n déva mai pillòtto da la gente.26 “A la Costa San Savino nacque questo Santo fino,27 poi, partito assai piccino, al deserto28 andò perfino. Lue, tolà, fu, al tutto, morto al mondo, benanche che birava e era ritondo.29 I miriàcol sua èn tanti,30 ch’a contàlli31 tutti quanti noi mai sarem bastanti, ché sta in Cielo ’n mezzo ai Santi”.32 Si da vo’ prego, Tomasso, de siguro, ’n m’ampatàsso: sempre trovo la sortita dal pantano de la vita.33 Docché ’l Sentino se sposa al Perticano ce sta la chiesa de Sant’Emiliano, drent’a ’na cella, a ’tésta non distante, ce stécero molte persone sante. ’Spètta, m’arcòrdo, ce stéce, ’nginocchiato, San Domenico, detto Loricato. San Domenico, detto Confessore, ’nte ’ste celle passò diverse ore. Pe’ scampa’, seconda, da la morte, féva penitenza anchi San Forte. Ma per gi’ a véde do’ questo Beato, tutt’al giorno stéva ’ncarcerato, tocca’ passa’ per tutta ’n’antra via e gi’ sul Monte de Santa Maria. Dove de ’sta romìta c’era l’ara, ce nasce ancora ’na bella ficara, una ficara, ’nsième ai gigli belli, che ce piantò ’sto santo dei Gabrielli.34 ’Nte ’n quela grotta ce stéva Sant’Agnese,35 che la sua vita ’n penitenza spese. De’n pecoraro, che l’éva tradita, fece de pietra ’na statua ’nteghìta.36 ’Nte ’n quel’altra ce stéce San Donìno37, che pe’ la messa ’n c’éva manco ’l vino. Per di’ la messa ci aveva ’na bughetta, ch’ancora ogge jje dìcheno Chiesetta.38 Si vòi, tu, principiare ogni sapienza, de Ddio, d’ave’ tu ci hai la temenza!39


La terribile maledizione de Sant’Agnese

D.: “Te podesse ammarmi’40 te, pecore e cane, co’ ’l curtello e ’l pane su le mane!”41


La mane de Sant’Antogno sul Monte Catria

D.: Del Monte Catria ’na balza vulticàta,42 de sant’Antogno la mano l’ha fermata: ade’ sta bona giù la Val del Sasso e ’n fa più danno ’sto spallato43 masso.44


I miriacoli dei capesciòtti e della fonte, operati da San Romaldo e “l’Aquila” de la Scirca

E quela fonte, da ’n santo òmo alto, fu fatta nasce chiamato…Romualdo;45 da quel sant’òmo che la badia de Sìtria volle fonda’ comme ’na nòva Nìtria.46 ’Nte la badia che, lu’, t’éva fondato, per ben sett’anni ce fu ’ncarcerato, per ben sett’anni ce fu ’mprigionato, dal monaco Romano calunniato, per ben sett’anni ’nte ’na cripta archiuso, vittima certamente d’un abuso. Ma, per suo mezzo, Dio fece un miracolo, che da tutti chiama’ lo fece oracolo. ’N capesciòtto jje dettero a magnare, drent’a l’òjjo volsuto cucinare, ’nsomma, un pesce, jje décero fritto, purché ristasse sempre bòno e zitto. Ma quisto Romualdo, un bel matìno, lo dà da l’acque fresche de l’Artìno, e, tanto prega Dio, ognun stupisca, che fa che, fritto, lue s’arinvivisca. I capesciòtti ’nte l’Artìn viventi, da quel dì, in poi, fûro diferenti, coi corpi loro tutti pintichiati: ’nti altri fiumi mai l’honno altrovati!47 Sopre La Scirca c’è ’n’aquila de sasso,48 poco più ’n su la Grotta del Masso.49 Sopre Segillo c’è ’na balza scura, de le Lecce chiamata Spaccatura; su ppe’ ’n toppetto, de ’sta balza pizzuta, lo strano Orto ce sta de la Cicuta, ch’è ’na pianta velenosa tanto, che, si la magni, t’altrovi al camposanto. Ma, per fortuna, “chi asàggia la cicuta, la ciàncica su ’n bocca e, po’, la sputa”. Ma, pe’ scarògna, chi magna la cicuta, sta pur certo che lue non la risputa. 50 De Segillo, sul monte, c’èn le Cèse, che così ènno dette, ché venìvon fièse.51

La Capra Bergólla de La Foce de Sòmbo

Drent’a la Foce, detta già de Sómbo, dove ch’al lampo s’acompàgna ’l rombo, versa’a L’Aiale, ogn’òmo che risale, arìschia forte da sentìsse male, ch’arancàndo, su per quélo spiómbo, ogni fuscéllo pesa più del piombo. Su ppe’ ’sta foce, dove l’erba bólla, ce sta ’ntanata la Capra Bergólla. Ch’è così detta, perché ’n male grosso, tutto quanto j’asassìna ’n’osso, che così è detta, perché ’n male rógno, tutto quanto jje rovina l’ógno. Lóngo e dritto con corno, ed uno storto, mai da nisciuno, ’tista, ha fatto torto. Salva la pelle, del lupo, dal morso, stando niscòsta drent’a Grotti l’Orso. E, dettoquìne, fa sempre vedetta, perché ’l Maligno ’n faccia la vendetta, e, più che altro, bada che i freghétti, del male ’n càdeno drent’ai trabocchetti. Pe’ smacchia’ ’l bosco, i vecchi pecorari, spesse volte ’dopraveno i somari, ma, mèjjo dî somari, èreno i muli, ’taccati, in imbasciàta, per i culi. Pascelupana, ’na somara bianca, carcava ’n mondo, da l’una a l’altra anca. Su La Strada del Sasso, a Costaciàro, c’è, ’nco’, ’nna Curva, detta del Somaro. Somarari e gavallari ’l Monte guèrna, ma nisciùn batte quelli de Chiasèrna!52

LA POLARITÀ NEGATIVA


La *Bestia Cupa, la *Bestia Piòta, Malco, i Spirti, ’l Dragolétto, *Gnavolóne,

i Mazzamurèlli, la *Capra ’Gnuda, la ’Gèa, ’l Diavolo del Fosso del Cupo,

il Gigante buono Monte Cucco ed il gigante cattivo Sanìa, o Golìa, Orlando paladino sconfitto53

D.: Io le véggo, ma ’n l’anségno: sott’al Ponte del Ponticéllo.54

Drento de me arsènto a urla’55 ’na lupa: io l’arconosco, se chiama Bestia Cupa,56 po’ de ’sto Monte ’nte la panza vòta ce sta ’nguattàta la strana Bestia Piòta57. Dóppo c’è Malco,58 i Spirti59 e ’l Dragolétto60 che ’n te pìa vòjja mai de gìtte al letto. Ppo’, de le volte, èccote Gnavolóne, ’nti panni, bócco, de ’n grosso saccolóne.61 Ma quelli che te fòn tòrge i budelli62 èn più che altro i mazzamurèlli.63 Su ’n quelo scòjjo, docché ’l Monte suda,64 ce sbròzza65 e spìzza66 la brutta Capra ’Gnuda.67 Drent’a ’sto Monte, do’ l’acqua se crea,68 ce sta ’mbugàta69 la sbiancuciàta70 ’Gèa.71 Giù ppe’ la fonda72 de ’l Fosso del Cupo,73 un essere ce vive ’nsieme al lupo: è ’n diavolo che ci ha fatto ’n giardino74 do’ non ce cresce manco ’l peggio spino. Sott’a ’na balza, do’ ’sto fosso scorre, la traccia de ’nna scarpa vòlse porre.75 Ma, per fortuna, e già n’ho ’ntéso l’ùcco,76 c’è ’n bon gigante, se chiama… Monte Cucco.77 È’ nn’òmo grosso, più bono de ’nna pasta, che si l’ conoschi jje voi bène e basta. Ma de giganti ’n antro ce ne sarìa: e ’l nome suo è quello de Sanìa.78 ’Sto ’nciferìto79 fece fòri Orlando,80 a quela cima questo nome dando.81


I Cinque Spacchi del Diavolo, Malco, *Narisète, Orlando, Timolaonte, Zigo e *Sirbano

L brutto Malco bastignando82 ha riso, su ’n quelo scòjjo che ’l demogno ha inciso. De notte, co’ la furia sua passato, ’na smanàta a questa sbalza ha dato. Da quela volta che l’ógno83 suo pontò84 ’nfin’adesso l’orma sua restò.85 Tanti dìcheno ’nvece che fu Orlando, verso la morte senza scampo andando. “Prima che morgo -disse, a quanto pare- ’n cinque fette ’sto Monte vòjjo fare”.86 Quann’a la sera calla giù la sfera, ’m po’ prima che del ciel l’aria s’annéra, de ’sta mane s’alùnghen tutti i déti, toccando ’n punto del monte dei Moréti. ’Nte ’l pòsto esatto, ’nsegnato da ’sta mano, c’honno setóro ’n grande capitano; si de conosce ’l nome suo c’hai sete… quann’era vivo jje dìsser Narisète.87 Uno di fossi de ’sto Monte vano88 consagrato era al dio Silvano.89

Po’, de le volte, ’niva ,90 giù dal Monte, quel drugolóne91 de Timolaónte.92 Tìmolo o Tìmole era detto ’st’òmo,93 ch’era ’m bel po’ foràstico,94 ma bòno. Del Monte Catria, ’nte le bughe95 scure, do’ s’amùcchieno,96 nere, le paure,97 ce stéva nn òmo, lóngo98 comme ’n pìgo,99 da tutti conosciuto comme Zìgo.100 Quann’era sera, dal Monte lue scendeva e la limòsina101 da la gente chiedeva. Si jje la102 dévi,103 guardava104 te e le bestie, si ’gne la105 dévi, te féva le modèstie.106 S’alontanàva,107 comme le farfalle, e déva fòco da tutte le stalle,108 s’alontanàva de parecchie canne,109 e te vedevi ad arde110 le capanne. ’N potere lue111 ci aveva, assai speciale: staccava ’l volo senza avécce l’ale.112 Altri lo dìcheno ’nvece ’n gran brigante, co’ la sua banda, furfante e lestofante.113





L Pero del Diavolo, ’l Diavolo del Catria e *Bofógno

D’un Isolano, ’l povero bisavolo, fu che piantò il Pero del Diavolo.114 Tésto divenne vecchio e matriàle ed aloggiò ’l principe del male. Chiunque passava sott’a quista pianta, fusse stata pure ’na gran santa, ’l diavolo, in person, jje comparìva e la vita, tutta, jje ghiadìva. Dóppo che ’l pero è doventato ’n tavolo, più da nisciuno jje comparisce ’l diavolo. Ma da chi magna sopre quela tavola, non gn’arcontàte, per carità, ’sta favola!115

Viddi la léngua, lónga, del dimògno, la viddi lónga, ma nonn’era ’n sogno. Viddi la léngua ròscia, a spendolóne, del dimògno, comme ’n seghettóne.116 Viddi ’n serpente lóngo, lóngo, lóngo, ch’a mesuràllo non arìva ’nno stóngo. E ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, ’l codino lue stacciàva, ribirato; e ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, me fece, pe’ la ppèsta, mpunta’ ’l fiato.

Quanno lo viddi che puntava l’ógno, io sùbbito m’acòrsi de Bofógno. I corni viddi lónghi de Bofógno,117 jje viddi i corni, e l’arbirato ógno. Alóra nn’ància ’ntési, drent’a jj’òssi, che fatto me sarìa porta’ da i fossi. Alóra nn’ància ’ntési, tanto forte, comme l’abràccio ghiaccio de la Morte.118


Mezzi apotropaici e metodi di scongiuro di mali e malocchi, streghe e stregoni, come la Furcina de Legno de Fico, ’l Bastone de Legno Stregone, ed i poteri benefici de la *Gràlla

D.: “San Rocco, San Rocco, ’na scarpa e ’nno zòcco!”. Col bastone San Rocco caminava, e col cane, che lo seguitava, col bordone giva Giacomino, e co’ ’nna scarsa, ’nna scarsèlla ’e vino. San Giacomo, che mai non s’amerìggia, drent’a ’na chiesa, lo venera La Schiggia. Ade’, ’nvéce, vòn via co’ l’apparécchio, màgnon, bévon, dòrmeno parécchio. Quanto, poi, a parla’ de religione, da chi ce crede, jje dìcheno cojjóne.119

Si ’l dimògno te vòi tène lontano, legno stregone sempre su le mano, si d’ogni strega, tu, te vòi slontana’, ’na fùrcina sott’al collo hai da porta’, ’n’inforchetta porta’, mo’ te lo dico, ad ogn’ora, reca’, devi de fico, mai, proprio mai, hai da voltàtte adiètro, non nomina’ mai ’l nòme de San Pietro, dei Santi, de la Madonna e Iddio, non invoca’ mai nòme, o fiòlo mio! Si tu ’nte ’n casa arporta’, vòi, tutti jj’òssi, quel che t’ho ’itto, fa in Croce dî Fossi! Tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, che da qui dista guàsi mille leghe, tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, docché arparate ce s’èn cinquanta freghe, tutto tu fa l’al Fosso che Chiacchiera, docché lavàtte tu pòssi d’ogni piàcchera, ché sì è chiamato, ’sto fosso, dettoquì, ché cento voci pìa l’acqua de diquì. A Lo Scòjjo de Streghe, ’no stregone, parla’ coi morti fece più persone. Si mantène, lontano, vòi Bofógno, pe’ sti lòchi passa per Sant’Antogno! Quanno ch’urla’ me sentirai tu: Vanne! Festa e fiera farai per San Giovanne .120 Da l’acqua s’arpàreno, e dal vento, le streghe angrumàte a Boninvènto! A Boninvènto, sott’a ’na gran noce, ’n’ardunàta fanno ’n bel po’ atroce, ch’a tutto ’l mondo, al mondo ’ntero, nòce. A Boninvènto, sott’a ’n noce maschio, mìschieno le voce ’nte ’n gran ràschio. Si ’nte ’l caldaro loro ’n te vòi còce, da Domineddio lancia ’nna voce.121

Mo’ ’l vino bevemo ’nte ’sta gràlla: guàrdela bene e véde d’arcordàlla, ché, si l’arvédi, tanto essa è bella, ch’a meno ’n pòssi fa’ d’arconoscélla. Tanti la guàrdeno e ’n la védeno, e ch’è solo ’nna coppa lór se crédeno. Quanno la grazia, al’improvìso, vène, beato chi capisce e se la tène. Ma, più d’ogn’altra cosa, questa gràlla, col nome proprio te toccarìa chiamàlla.122


La finazione del mondo e ’l Cantùccio de Gubbio

A voi tutti, ch’abitate ’nte ’sto mondo antico, un consìjjo vòjjo da’ da vero amico: “cojjéte le nnèspole e piagnéte, perch’è l’ultimo frutto ch’averéte…”123 Tutto ’nte ’l mondo è creato col fine124 e non c’è rosa che non ci ha le spine. Quanno, del mondo, verrà la finazione, beati quelli, de Gubbio, ’nte ’l Cantone;125 quanno del mondo verrà ’l grande corùccio, felici quelli, de Gubbio, ’nte ’l Cantuccio126 … ’l sangue, comme l’acqua, corre pe’ le strade: da tutti quanti su la testa arcàde.127 E ’n mezz’a ’n ravastìo, de tròni e lampi, sangue vedderìte tracana’ da i campi. ’L gran tremòto ’nte La Buga sfoga, e ’l pinaróne da nisciuno afóga…128 Beati quelli che, quela matìna, staranno sott’a la mela conventina. Felici quelli, in quela matìna, tolà do’ fa la mela conventina. 129 Quanno del mondo verrà la finazione: de Gubbio, tutti, ristate ’nte ’l Cantone!130 Si del bene vòi fare tu a ’nn’amico: latte de capra e legno de fico!131


Conclusioni

Dall’indagine dell’ingente patrimonio antropologico, proprio dell’area in esame, emergono alcuni dati importanti e degni di nota.

Si è rilevata una certa differenza di credenze e tradizioni tra le aree ricadenti nei due versanti dell’Appennino. Il versante tirrenico od occidentale, inoltre, pare risentire maggiormente dell’influenza toscana nella terminologia agricola e anche le denominazioni paiono appartenere ad una fase cronologica successiva a quella dell’area orientale od adriatica, che conserva maggiori e più rari latinismi lessicali.

Quest’ultimo dato si può agevolmente spiegare col fatto che l’area orientale, ricadente nel versante marchigiano dell’Appennino, è una zona rimasta molto più isolata, a causa, sia delle caratteristiche geografiche, che della marginalità ed inadeguatezza delle vie di comunicazione.

E’ per questo, io credo, che quest’area ha conservato una fase più antica di denominazioni, ovvero uno strato antecedente a quello dell’area occidentale, maggiormente esposta agli influssi innovatori che, la presenza della strada consolare Flaminia, ha permesso e favorito sin dal 220 a.C..

Ad esempio, per designare il maggiociondolo (Laburnum anagyroides), nell’area occidentale si usa il comune e moderno termine “maggio”, nell’area orientale, invece, il termine impiegato è un semilatinismo di tradizione ininterrotta o popolare, “leofòrno”, dal latino laburnum, nome proprio della specie, o, forse, addirittura, una forma osco-umbra, rivelata dalla “spia” della spirante alveodentale interna di parola (esiste, infatti, l’attestazione di una simile forma osca in “lafurnetum”, cioè “bosco di maggiociondoli”). La stessa considerazione si può fare per i termini impiegati nelle due aree per designare l’acero minore (Acer monspessulanum).

Nell’area occidentale esso è definito, infatti, con il termine dialettale e moderno di “castracane”, per via della sua fastidiosa e pericolosa spinosità; nell’area orientale, la designazione pare essere assai più antica e doversi ascrivere ad influenza linguistica latina. L’albero è infatti definito “acceticchio”, termine sconosciuto alla lingua italiana, che farebbe postulare una forma di tardo latino parlato come *aceticulus, formato dalla radice ac, ‘essere acuto’, ‘essere pungente’, dalla quale molti nomi di piante spinose hanno preso origine (acacia, agrifoglio, acanto, ecc...).

Un altro esempio è dato dai due modi di denominare l’acero di monte nelle due differenti aree.

Nell’area occidentale, esso è definito semplicemente “acera” (col genere femminile conservato, derivato dal latino), e, nell’area orientale, “àciara lémba”, probabilmente dal termine latino limbus, ‘margine sfrangiato di un vestito’, usato qui figuratamente, per indicare il lembo smarginato delle foglie dell’albero. Da notare è anche l’esito “àciera” di acer, che fa pensare ad un dittongamento di e, probabilmente in quel tempo tonica ed in sillaba libera.

Spesso, nell’area orientale del territorio di questa indagine, le denominazioni, le storie e le credenze ad essa proprie si sommano con quelle dell’area occidentale, segno, questo, dei frequenti contatti e scambi “transappenninici” tra le due zone, permessi e favoriti, sin da epoca remota, da quei rudimentali assi viari, utilizzanti le strette vallecole torrentizie e i piccoli valichi (“forcelle”, “barchi”, “inforchette”) montani.

Attraverso essi dovettero transitare, sin da epoca protostorica, le greggi sulla via della transumanza.

La maggior parte dei termini designanti gli aspetti più peculiari del mondo naturale sono legati ad una latinità classica o tardo-parlata (insíto, “innesto”, dal latino classico insitio; téga, ‘baccello’, da theca, ‘contenitore’; merólla, ‘duramen’, da medulla, ‘midollo’).

Altri, poi, dovrebbero derivare dal superstrato linguistico germanico-langobardo: (“ghiffa”, il fungo Polyporus fomentarius, dal langobardo wiffa, ‘fastello di paglia quale segno di confine nei campi’; “ferlénghe”, fungo del genere Pleurotus, forse originariamente “berlénghe”, cioè adatte alla mensa, al desco, per la loro spiccata qualità mangereccia; bròzzo, ‘germoglio’, dal germanico, medio alto tedesco, broz/prot, ‘germoglio’, ‘gemma di un albero’).

Al superstrato greco-bizantino, il più povero di denominazioni nell’area interessata da questo lavoro, pare appartenere il termine “cationi”, designante ‘i semi pungenti e attaccaticci della bardana’, e, anche, la pianta stessa, forse dal greco kaktos, ‘cardo pungente’.

Molte altre prove si potrebbero addurre a sostegno di questa mia tesi delle differenti stratificazioni storico-antropologiche e linguistiche, diversamente dislocate nei due versanti dell’Appennino, ma il vero scopo di questo mio lavoro geolinguistico è essenzialmente quello di mostrare, nella varietà delle denominazioni legate ad un campo semantico comune, la grande creatività del parlante, creatività e ricchezza semantica e di elaborazione fantastica, derivategli da una spiccata capacità di valorizzare ogni singolo aspetto dell’oggetto o dell’essere denominato.

Grande importanza in questo lavoro hanno, senza dubbio alcuno, anche i moventi psichici inconsci che spingono il parlante ad attribuire valore e significanza ad aspetti probabilmente ritenuti marginali o non affatto considerati da chi non è vissuto e non vive in quel particolare “milieu” culturale.

Così, ad esempio, i frutti del bosso vengono denominato “banchette”, per la rassomiglianza a piccoli sgabelli o treppiedi, così, la poiana, viene chiamata “sbarbio”, per le piume della gola simili ad una folta barba, così, infine, il diavolo viene eufemisticamente chiamato “diàntene”, cambiando la forma della parola, affinché essa si possa pronunciare senza che il vero nome evochi la presenza del maligno presso il cauto e superstizioso parlante.

Vi è poi un principio generale che mi pare di poter trarre dall’analisi di queste denominazioni: quello dell’utilità. Sono denominate soltanto quelle essenze, entità, o quegli esseri, reali od immaginari, che, in qualche modo, risultano utili alla vita agricolo-pastorale.

Questo spiega perché molte essenze vegetali ed esseri animali restino affatto “muti”, ossia privi di alcuna denominazione. Tutto ciò è chiaramente dovuto all’essenza stessa della società agricolo-pastorale il cui fine primario è, o meglio era, la sopravvivenza materiale.

Da questo lavoro emerge la grande creatività linguistica ed antropologica dei nostri contadini e dei nostri pastori, la loro arguzia, la loro sagacia. Dall’analisi della quantità e qualità delle denominazioni e delle credenze, relative allo specifico campo semantico delle realtà naturali, emerge chiaramente l’arcaicità dei modelli narrativi e lessicali di riferimento, segno certo, questo, della precedenza temporale dell’approccio a tali oggetti culturali rispetto a quelli relativi ad altri, seriori, campi e di esplorazione e di esperienza delle genti appenniniche.

Dall’indagine, risulta la diversa competenza linguistica e culturale degli uomini e delle donne rispetto alle differenti, ferree mansioni attribuite ai due sessi dalla società contadina. Le donne hanno maggiore conoscenza (e a volte quasi esclusiva) del mondo vegetale legato alle erbe, sia a quelle destinate alla cucina che a quelle medicamentose, gli uomini, migliore competenza nel campo degli animali ed in tutto il loro restante ràggio d’azione lavorativo.

Un dato allarmante risulta dalla constatazione del progressivo distacco delle giovani generazioni dalla propria cultura e, peggio, dalla percezione di come esse, spesso, giungano persino a vergognarsi di questo retaggio culturale, sentito spesso come un fardello insopportabile di cui liberarsi. Mentre, infatti, le generazioni di età più avanzata posseggono quasi integro l’originario patrimonio di conoscenze tradizionali e poco si è perduto nella successiva generazione, quella dei sessantenni di oggi, la terza generazione, quella, pressappoco, dai quarant’anni in giù, è stata la generazione dello stacco, dell’interruzione della continuità di trasmissione della cultura tradizionale. Ciò è spiegabilissimo per le grandi trasformazioni socio-economiche che il nostro Paese ha attraversato, specie nell’ultimo quarantennio. La quarta generazione, infine, è quella dell’oblio totale dell’humus culturale in cui sono cresciute le generazioni precedenti.

Accanto al generale sfaldamento della costruzione culturale tradizionale, tuttavia, c’è la confortante constatazione di un recentissimo e positivo risveglio d’interesse per le tematiche relative alla civiltà agro-silvo-pastorale, vista come un punto fermo verso cui orientarsi nel generale quadro di assenza di valori culturali e sociali di riferimento che si presenta oggi dinnanzi alle giovani generazioni.

Questo lavoro vuole anche essere lo sforzo consapevole di ridare dignità di modello culturale e civile ad un patrimonio millenario di idee che possono ancora validamente servire ad informare la vita ed i comportamenti dell’uomo che ha da poco varcato le soglie del nuovo millennio.

Termino questa mia fatica, riportando un aneddoto popolare, assai significativo della transizione dall’epoca della cronica scarsità di risorse alimentari (“tempo de fame”) a quello del benessere (“benestàre”). Un contadino, profondamente preoccupato, va dal suo medico per l’improvvisa insorgenza d’un disturbo: «Dottó, mesà che io nno sto bene… Perché, che ti senti? Dóppo ch’ho magnato, nn’ho più fame!».

E, per terminare in qualche modo degnamente questa, in realtà, interminabile ricerca, ecco un condensato di sano scetticismo popolare nei riguardi d’ogni intrapresa dell’ingegno umano:


«Comme fai, comme non fai,

sempre drent’a ’n fosso sai…».


L Mazzamurello

Da le balze d’un monte, amica gente,

Vicino a Gubbio, nasce ’na sorgente.

Embè, mentre bevevo allo zampillo,

Sento, de ’n frego, risonare un trillo,

E poi vedo atterra’ ’no Spiritello.

A tre passi da me, con un saltello.

- Chi sei? – je chiedo alora – Fui un bambino

E abitavo ’nte ’l quartier de San Martino,

Ma ppo’ so’ morto, pora mamma mia!,

Nte ’l Mille, poro babbo!, d’anemia.

Ma, adène, émo fenito co’ le pene

Ché potemo sta’ ’n cielo, sempre ’nsieme! –

A la fine m’abbagliò con un sorriso

E poi, fatte sul prato du’ capriole,

Tra i soffioni, le primule e le viole,

S’artornò, tutto contento, ’n Paradiso.


© Euro Puletti 2000.

Il diritto d’autore è riservato.



Appendice

Utili consigli di vita dispensati dal Diàntene ad ogni “uomo viatore”


D.: “Sant’Anna, Bàrbera e ’Lisabetta,132 salvàtece da fùlmeni e saetta!”. “Sant’Ubaldo, si al’improvìso slàmpena, fa’ che piove senza tròni e gràndena, che senza troni piova e senza lampi e che l’òmo da brutta morte scampi!”.133 Del caldaro, ’l pesante catenaccio, butta su l’ara, comme si fosse straccio!134 La terra anchi dal fulmine l’arègge: vòi che ’n te tène dei cristiani ’l gregge? Fìcchete sùbbito sott’a ’nno spino grosso, ché ’l fulmine ’n te pòle cade adòsso!135 Tre ssegni de la croce su la fronte, quanno ogni lampo te vedderai di fronte.136 Po’, questa lampa, tène su le mano: si te se spigne, vól di’ che sai lontano, si te se smòrcia con ciàmo de lute, le pene tua te l’averai volute; sinnò, col lume fiacco de le stèlle, tu, cocco mio, non pòssi gìcce ’nvèlle. ’Sta lampa vecchia se chiama cendilèna, t’aiutarà a camina’ con lèna, ’sta lampa racchia fa lume col carburo: è ’n lume chiaro, che fa spari’ lo scuro. Ce gìvon, setoràti, i minatori, i spiòlichi, i ladri de tesori…137 Si la notte te còjje, tutt’a ’n tratto, da l’Ostaria fèrmete de ’l Gatto, ch’a Costaciàro sta sopre ’L Trióne, e ch’a ’loggiato ’n mucchio de persone; prima che entri, vedderai tu ’n gatto, de pietra lavorata tutto fatto, sotto de lue, ch’apòggia sopre ’n tronco, ’n pensiere leggerai, che pare monco; che sia ’l sole, o ’l nuvolo, o che piova, a ben capìllo ognun che passa prova: “Io so’ ’l gatto e l’ostello se ne giova”. 138





1 Si immagina che, qui di séguito, il Diàntene, abitatore fantastico del Monte Cucco, narri realmente, ad ognuno dei nostri bambini, storie, leggende, tradizioni, credenze popolari e produzioni poetiche dialettali, rilevabili, ancor oggi, per la più gran parte, nell’area limitrofa al nostro incantevole ed incantato massiccio montuoso.

2 Con parte della presente comunicazione, in attesa di prossima pubblicazione, e la cui proprietà letteraria è riservata, l’autore ha partecipato, in qualità di relatore, al 1° Convegno di Studi sul tema “Il Centro Museale della Civiltà Contadina” (Fossato di Vico [PG], 21 ottobre 2000).

3 Questo, che è uno dei Cinque pensieri di filosofia e morale di Leonardo, va interpretato nel senso, che solo il silenzio, che scaturisce dalla solitudine, consente all’uomo di porsi all’ascolto della voce più profonda del proprio animo.

4 Nella tradizione popolare locale, il termine Diàntene rappresenta una forma eufemistica, sovente impiegata per alludere indirettamente al diavolo, il cui vero nome, se incautamente pronunciato, basterebbe, da solo, ad evocarne l’insidiosa presenza. Forme simili al “demonònimo” Diàntene si hanno in Umbria, Diànzene (rarissimo a Sigillo), Diàntena (Assisano), “[porco] Diàntene!” (Tifernate), Diàmmena, Diàmmene (Eugubino-Gualdese), e Toscana: Diàntine, Diàncine. Assai singolari appaiono i femminili Diàntena e Diàmmena. Essi dovrebbero denunciare la radicata credenza popolare, secondo la quale il diavolo sarebbe di genere e natura femminile, anzi, meglio, esso sarebbe “la donna in persona”.Diàntene è il ‘nome del diavolo’ anche a Valentano (Alto Lazio, Viterbo). Forse, il termine ci è giunto per il tramite dei pastori transumanti. Da noi, ad un bambino particolarmente irrequieto e forte si diceva, un tempo: “sto fio pare ’l diàntene!”.


5 Cfr. Itinerario Gaditano, in BORMANN, E., Corpus Inscriptionum Latinarum, vol. XI, pars II, 3281-3284.

6 Cfr. C. PLINIO, Naturalis Historia, Basilea, Frobenio, 1530, III, 113-114.

7 Cfr. DEVOTO, G., Lettera del 23/3/1965, in BARTOLETTI, D., Sigillo dell’Umbria, nella storia, nell’arte, nella fede e nel folklore, La Toscografica, Empoli, 1965, pp.9-10.

8 Mi riferisco qui alle incursioni saracene nell’Italia centrale, attestate dai Codici Umbri (cfr. PAOLUCCI, don P., Scheggia, note critico-storiche, La Toscografica, Empoli, 1966, pp.84-85).

9 Ibidem, pp.60-86.

10 Cfr. FELICIANGELI, B., Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia nel secolo VI, Ed. Tonnarelli, Camerino, 1908, p. 23.

11 Sulla germanicità della forma toponimica Caggio cfr. NUCCIARELLI, F. I., Toponimi langobardi nell’area del Castello di Gaiche (PG), in MORETTI, G., MELELLI, A., BATINTI, A. (curatori), “I nomi di luogo in Umbria: progetti di ricerca”, Quaderni Regione dell’Umbria, collana di toponomastica, Perugia, 1992, p.174, s.v. “caggiano”.

12 Cfr. UNCINI, F., Rocche e castelli nel Medioevo tra Marche ed Umbria, Associazione per lo sviluppo turistico, Fabriano, Orfei Alberto Editore, Arti Grafiche “Gentile”, Fabriano, 1994, pp.5-9.

13 Cfr. UNCINI, F., op.cit., pp.8-9.

14 Cfr. PAOLUCCI, don P., op.cit., pp.84-86.

15 Di questo toponimo cartografato non ho potuto rinvenire attestazioni documentarie che lo facciano risalire ad epoca altomedioevale o, almeno, medioevale. La mia analisi si basa, dunque, esclusivamente sulla forma grafica contemporanea.

16 Cfr. PELLEGRINI, G. B., Toponomastica italiana: 10.000 nomi di città, paesi, frazioni, regioni, contrade, fiumi, monti spiegati nella loro origine e storia, Hoepli, Milano, 1990, p.287.

17 Cfr. in proposito MENICHETTI, P.L., Castelli, palazzi fortificati, fortilizi, torri di Gubbio dal secolo XI al XIV, Tipolitografia Rubini e Petruzzi, Città di Castello, 1979.

18 Cfr. GUERRIERI, R., Storia Civile ed Ecclesiastica del Comune di Gualdo Tadino, Tipografia Oderisi, Gubbio, 1933, p.326.

19 Cfr. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, vol. II, par. II, Imperiale Regia Stamperia, Milano, 1820, pp.184-185.

20 Ogni luogo caratterizzato da spaccature, faglie, scissure, o discontinuità geologiche in genere, come brusche rotture di pendio, burroni e forre, talora assumenti il nome di bocche nere, sono stati connotati assai negativamente dalla cultura contadina locale, che vi ha spesso riconosciuto l’intervento di forze telluriche e infernali decise a “spezzare la terra”, impedendo agli uomini il libero transito sopra di essa e tendendo loro tranelli e trabocchetti (’L Trabócco, nome di una grotta impostata su faglia nei pressi di Coldipeccio di Scheggia), dai quali si rischiava di precipitare nel tetro mondo sotterraneo dal quale nessuno avrebbe potuto mai più fare ritorno. Le grotte aventi una morfologia a pozzo o a voragine erano, poi, quando possibile, sistematicamente attappate, scaricando al loro interno grandi quantità di materiale inerte, come pietre e terra. I fiati esalantisi da queste bocche andavano infatti soffocati e racchiusi per sempre. Lo scopo manifesto e dichiarato di tale pratica era semplicemente quello di impedire che il bestiame domestico al pascolo precipitasse rovinosamente in tali insidiosi pertugi. Il fine simbolico, quello di interrompere la comunicazione tra il mondo della luce e dei vivi e quello delle tenebre e dei morti. Una prova di ciò si può trovare nel fatto che questi inghiottitoi erano spesso lasciati all’assedio d’una esuberante e repulsiva vegetazione, costituita da piante spinescenti, o, come l’agrifoglio, gravide di sacralità pagana. Le piante spinose, volutamente lasciate crescere indisturbate in mezzo ai pascoli (molti dei quali dalla loro presenza mutuarono il nome di Pian de Spille, vale a dire di ‘piano degli arbusti spinosi’) avrebbero assolto la funzione di proteggere dai fulmini le pecore che andavano a ripararsi sotto di esse in caso di temporale. Le loro spine si sarebbero validamente contrapposte alle punte dei fulmini, tenendoli, così, imprigionati nelle loro nubi.

21 Il Diàntene sta parafrasando il noto proverbio popolare “Le cèrque ’n fòn le meràngole”, che, alla lettera, vale a dire: “Le querce non fanno le arance”. Quest’antico adagio dialettale era un tempo impiegato con particolare riferimento a persone stupide, le quali, secondo la loro natura di “minus habens”, compivano azioni sciocche e maldestre.

22 «’N s’arindrìzza affatto» = ‘non si raddrizza per niente, non si può più, neanche minimamente, raddrizzare’. L’uomo cresciuto con molte storture morali è, dunque, secondo il lapidario giudizio del Diàntene, del tutto irrecuperabile.

23 «Cèrqua più grossa, che mai nn ha fatto ghianda […]» = ‘La più grande quercia sterile, che, cioè, non ha dato mai alcun frutto’.

24 Un contadino, interrogato sul luogo dove si sarebbero potute trovare le querce più grandi del mondo, rispose, in maniera estremamente acuta ed ironica: “Le cèrque più grosse e matriàle créscheno do’ se comanda”, cioè, fuor di metafora: “Le persone più grossolane, sciocche e maleducate vivono nei luoghi dove si esercita il potere”.

25 Secondo un’antichissima leggenda locale, San Girolamo, per sottrarsi alla persecuzione dei sacerdoti romani, che egli avrebbe attaccato per la loro carenza di rettitudine, si rifugiò per qualche tempo in una grotta, aprentesi nei pressi dell’Eremo di Monte Cucco.

26 «Non disturbava mai la gente». L’espressione perifrastica dà pillòtto e la variante sintetica pillotta’ derivano entrambe dal sostantivo maschile pillotto, ‘spiedo’. Il disturbare insistentemente qualcuno viene dunque paragonato al rosolare, a fuoco lento, la carne sullo spiedo.

27 «Santo fino» = ‘Santo insigne’.

28 «Deserto» = ‘solitudine eremitica’.

29 «Lue, tolà, fu, al tutto, morto al mondo, benanche che birava e era ritondo.» = ‘In quel luogo, Lui restò completamente “morto al mondo”, benché quest’ultimo continuasse a ruotare e ad essere sferico.

30 «I miriàcol sua èn tanti» = ‘i suoi miracoli sono in così gran numero’. Notare la forma dialettale miriàcol(i), che sta per ‘miracoli’. Essa è chiaramente incrociata con il tardo latino myrias, -adis, che è dal greco myriàs, -àdos, ‘collettività di diecimila’, che sembra, già di per se stessa, voler indicare la gran quantità di prodigi, operati dal nostro Beato.

31 «Ch’a contàlli» = ‘che a contarli e a raccontarli (cioè ‘a narrarli’)’.

32 Queste ottave sono liberamente tratte da un proverbio popolare e da una lauda sul beato Tomasso Grasselli da Costacciaro, composta, da un anonimo scrittore, tra il XIII ed il XIV secolo. Nato a Costa San Savino nel 1262, il Beato entrò, a soli dieci anni, come novizio nell’abbazia romualdina di Santa Maria Assunta di Sitria, il cui Priore era, allora, un certo Trasimondo o Trasmondo. Divenuto Converso della Congregazione Camaldolese, si ritirò a condurre vita eremitica nei pressi dell’attuale Eremo di Monte Cucco, dove morì santamente nel 1337.

33 «Si da vo’ prego, Tomasso, de siguro, ’n m’ampatàsso: sempre trovo la sortita dal pantano de la vita» = ‘Se io vi prego, o Tomasso, certamente non rimango prigioniero del fango «’n m’ampatàsso»: sempre, infatti, trovo una via d’uscita «la sortita» da quel pantano che chiamano vita’.

34 Nel luogo di confluenza tra il Torrente Sentino ed il Rio Freddo, anticamente detto Fosso Perticaro o Perticano, luogo che, da questa confluenza, prende il significativo nome di Congiùntoli, sorge la chiesa abbaziale di Sant’Emiliano e Bartolomeo Apostolo, costruita tra l’XI ed il XIII secolo. Nei pressi di questo tempio cristiano, sorge una celletta («cellula», in latino: probabilmente il Sacellum Sancti Hieronymi, che si trova attualmente nelle immediate vicinanze dell’Eremo di Monte Cucco), in cui fecero eremitaggio molti santi uomini. Aspetta, se ci penso bene, ricordo che ci stette in preghiera anche San Domenico, detto Loricato (990-1060), a causa del cilizio, a forma di lorìca, che, per penitenza, usava sempre indossare sul nudo petto. San Domenico, detto anche Confessore (sulla cui vita scrisse un’epistola in latino San Pier Damiani), in queste celle passò svariate ore. Per sfuggire alla morte dell’anima, faceva penitenza anche il beato eugubino Forte (970-1040), della nobile famiglia dei Gabrielli. Tuttavia, per andare a vedere il luogo di continua reclusione di questo beato, occorre percorrere una strada completamente diversa e raggiungere il vertice del Monte di Santa Maria. Nel luogo ove sorgeva l’aia di questo romitorio crescono ancora un fico (la forcina, o forca, di legno di fico era, un tempo, considerata strumento idoneo ad affrontare ed allontanare le streghe ed altri esseri malefici) e alcuni giaggioli, ormai inselvatichiti, verosimilmente piantati dal Beato Forte in persona, ben un millennio or sono.

35 Si tratta di un’enigmatica figura femminile della Costacciaro medioevale, che la tradizione orale popolare vuole vivesse, per qualche anno, da eremita sul Monte Cucco, facendo penitenza nella Grotta de Sant’Agnese, che, proprio da lei, avrebbe tratto il nome. A Gubbio, sul Monte Ingino, esiste un’altra Grotta di Sant’Agnese e, sempre a Gubbio, sembra che un’eremita di nome Agnese sia realmente esistita. Occorre dire che di tale leggenda esiste anche una versione molto diversa per collocazione storica (ma la cui “intelaiatura” testuale è pressoché identica alla precedente: la contrastata e “contristata” vocazione eremitica della fanciulla, il pastore che tradisce la fede dell’eremita, il padre che perseguita la figlia, la maledizione al pastore, la sua subitanea trasformazione in statua di pietra, ecc.), riportata, con il titolo La leggenda delle pecore marmite, da uno storico locale di Costacciaro, nel suo libro Storia di Costacciaro (cfr. Lupini Ruggero “Peppino”, Storia di Costacciaro. Antica e Moderna – Tradizioni Popolari, Comune di Costacciaro 1999, p. 123). Eccone il testo integrale: «Durante la persecuzione dell’Imperatore Diocleziano, tutte le famiglie in qualche modo legate all’Impero dovevano incensare Giove. La figlia del Governatore Romano di Nocera, Agnese, si era convertita al Cristianesimo e, fuggendo da casa per non rinnegare la Fede, si rifugiò nella grotta del bosco della Pignola a Costacciaro. Quando il drappello dei soldati romani, guidati dallo stesso padre, arrivò a Costacciaro, domandò ad un pastore notizie sull’esistenza di grotte abitabili e questi per paura svelò il rifugio di Agnese. Mentre la trascinavano via in arresto, Agnese lanciò la maledizione contro il pastore: “Che diventino di pietra le tue pecore e il tuo cane e che tu possa vivere povero e derelitto per il rimorso e la miseria”. La maledizione si avverò e ancora oggi dopo 1.500 anni esiste questa fila di pietre sopra la grotta della Pignola che sembrano pecore con il cane».

36 «’Nteghìta» è participio passato, significante ‘irrigidita’.

37 Ai piedi delle balze della Pìgnola esiste realmente un androne, dedicato a San Donnino, con chiari segni di frequentazione umana antica.

38 Si tratta di una modesta ma asciutta cavità carsica, aprentesi al piede del settore più elevato delle balze della Pìgnola.

39 «Si vòi, tu, principiare ogni sapienza, de Ddio, d’ave’ tu ci hai la temenza!» = il Diàntene sta qui parafrasando il celebre proverbio biblico del re d’Israele Salomone: «Initium sapientiae timor Domini est», ‘Il timore del Signore è il principio della scienza’ (Proverbi 1,7), volendo qui significare che la base fondante d’ogni conoscenza è il rispetto religioso verso i misteri che regolano il Cosmo e l’umiltà, la quale, modesta ma affidabile fiaccola, permette lentamente di farsi largo, senza rischio alcuno di smarrimento, nello spessore delle loro fitte e tenebrose oscurità.

40 «Ammarmi’ » è verbo intransitivo popolare, significante: ‘impietrirsi, pietrificarsi’.

41 L’impietrimento, da parte di Sant’Agnese, del pastore traditore rappresentata la manifestata volontà di volere paralizzare in lui la volontà e la possibilità di pensare e fare il male, condannandolo alla perenne immobilità ed insensibilità della roccia.

42 «Vulticàta» = forma femminile dell’aggettivo e participio passato (v)ulticàto, derivato dal verbo riflessivo (v)ulticàsse, ‘rotolare vorticosamente’. La forma vulticàto deve, dunque, essere confrontata con l’italiano vorticato.

43 «Spallato» = ‘crollato’.

44 La tradizione orale popolare di Isola Fossara vuole che un grande masso, staccatosi dalle imponenti rupi del Monte Catria sovrastanti il paese, venisse fermato, con la mano destra, da un miracoloso intervento di sant’Antonio. La fantasia popolare, in alcuni confusi segni impressi sul masso, identifica ancor oggi l’impronta della provvidenziale mano di sant’Antonio. Il luogo in cui si trova ora il grande macigno è detto, da epoca imprecisabile, La Valle del Sasso. È possibile che il nome della valle si ricolleghi proprio a quest’antica frana di scoscendimento.

45 Secondo un’inveterata tradizione orale popolare di Isola Fossara, la sorgente che scaturisce nei pressi della badia di Sìtria fu fatta miracolosamente scaturire dallo stesso fondatore dell’abbazia, san Romualdo degli Onesti (952-1027), ravennate, istitutore della congregazione benedettina dei Camaldolesi, che gli abitanti di questi luoghi hanno sempre chiamato san Romaldo.

46 La badia di Sìtria, per la sua grande, solenne solitudine e la santità di vita ascetica che vi si conduceva, fu talora paragonata, anche a causa dell’analogia fonica e concettuale, determinata dalle due parole che fanno rima, con Nìtria d’Egitto, dove vissero in perfetta santità migliaia di anacoreti.

47«’Nte la badia che, lu’, t’éva fondato, per ben sett’anni ce fu ’ncarcerato, per ben sett’anni ce fu ’mprigionato, dal monaco Romano calunniato, per ben sett’anni ’nte ’na cripta archiuso, vittima certamente d’un abuso. Ma, per suo mezzo, Dio fece un miracolo, che da tutti chiama’ lo fece oracolo. ’N capesciòtto jje dettero a magnare, drent’a l’òjjo volsuto cucinare, ’nsomma, un pesce, jje décero fritto, purché ristasse sempre bòno e zitto. Ma quisto Romualdo, un bel matìno, lo dà da l’acque fresche de l’Artìno, e, tanto prega Dio, ognun stupisca, che fa che, fritto, lue s’arinvivìsca. I capesciòtti ’nte l’Artìn viventi, da quel dì, in poi, fûro diferenti, coi corpi loro tutti pintichiati: ’nti altri fiumi mai l’honno altrovati!» = ‘Nell’abbazia da Lui stesso fondata, fu incarcerato, per lo spazio di ben sette anni, per ben sette anni vi fu imprigionato, poiché era stato infamantemente calunniato da Romano, uno dei suoi monaci. Fu, infatti, rinchiuso per ben sette anni nella buia ed umida cripta dell’abbazia, quale vittima incolpevole d’un grande abuso. Ma Dio, volendo dimostrare la di Lui innocenza e santità, operò, per Suo mezzo, un grande prodigio, per il quale, da quel giorno in poi, fu trattato come se fosse stato un oracolo. Dàtogli, da parte dei Suoi compagni d’eremitaggio, da mangiare un ghiòzzo capesciòtto», s.m.), pescato nelle vicine acque del Torrente Artìno, e, poi, volùtolo essi cucinare fritto nell’olio d’oliva, insomma un pesce fritto, affinché non si lagnasse della Sua condizione, rimanendo buono e zitto, come era sempre stato fino ad allora, Romualdo, un bel mattino, lo restituì subito alle fresche acque dell’Artìno, e pregò così intensamente il Signore Iddio, che, ognuno si stupisca a quanto sto per dire, Egli ottenne che, benché fosse fritto, il pesce, al contatto delle vivificanti acque torrentizie, riprendesse istantaneamente vita s’arinvivìsca», f. verb.). Da quel giorno in poi, i ghiòzzi che vivono nell’Artìno sono di differente specie rispetto a quelli che abitano le acque degli altri fiumi circonvicini, nei quali, questi dell’Artìno, mai sono stati finora trovati. Si presentano, infatti, questi ultimi di un colore diverso e con il corpo completamente ricoperto di macchie pintichiati», agg. e part. pass.)’. Secondo un’antica credenza di Isola Fossara, i capesciòtti, o capisciòtti (‘ghiòzzi’), dell’Artìno apparterrebbero ad una specie diversa (sarebbero di diverso colore e picchiettati) rispetto a quelli presenti nel Sentino e altrove, e non potrebbero vivere che nel Torrente Artìno. Questa differente “razza” di pesci avrebbe fatto la sua comparsa nell’Artìno in séguito al miracolo, operato da san Romualdo, “del pesce fritto rinvistato nelle acque dell’Artìno”. Cfr. sull’argomento: BELLUCCI, G., 1894, a, Leggende umbre. I capesciotti di San Romualdo. La sorgente dell’Artino, “Rivista delle tradizioni popolari italiane, a. I, fasc. XII, pp. 899-900.

Secondo Alessandro Borgia, vescovo di Nocera nel 1716, che si recò in visita pastorale all’Abbazia di Sìtria, concessa in feudo dai Duchi d’Urbino ai Conti Odasio (dialettalmente Odàzzio, o, anticamente, anche Odasi e Odaci, forme entrambi plurali) di Isola Fossara, il cenobio prese il nome da quello, antico, del Monte Nocria, già chiamato Notria, e, ancor prima, appunto, Sìtria.

Rivus (o Rivulus) Arenti è l’antico nome, tramandatoci da san Pier Damiani (secolo XI) del Torrente Artìno. La forma idrotoponimica Arenti può essere riconnessa con la base idronimica indoeuropea *ar-, che indicava l’acqua, con particolare riguardo a quella in movimento. Ecco la possibile trafila fonetica, attraversata dall’idrotoponimo in esame sino al giorno d’oggi (dalla forma Arenti, cioè, ad Artìno): Arenti > *Arentinus > *Ar(en)tinus > *Artinus > Artìno.

48 «[…] ’n’aquila de sasso […]» = ci si riferisce qui ad una forma d’erosione della Scaglia rosata, tradizionalmente denominata L’Aquila, che i fattori geologici, unitamente agli agenti atmosferici, hanno appunto modellato in forma di aquila dalle ali semiaperte.

49 La Grotta del Masso, presso Villa Scirca, prende il nome da un macigno sospeso, un tempo, in precario equilibrio al di sopra della sua entrata.

50 «Sopre Sigillo c’è ’na balza scura, de le Lecce chiamata Spaccatura; su ppe’ ’n toppetto, de ’sta balza pizzuta, lo strano Orto ce sta de la Cicuta, ch’è ’na pianta velenosa tanto, che, si la magni, t’altrovi al camposanto. Ma, per fortuna, “chi asàggia la cicuta, la ciàncica su ’n bocca e, po’, la sputa”.» = ‘A monte di Sigillo si trova una parete rocciosa di colore scuro, chiamata Spaccatura (o Balza) de le Lecce (a causa della profonda incisione che la divide in due parti e dell’abbondante presenza di lecci, che vegetano abbarbicati alle sue rocce strapiombanti); sulla cima di un poggetto di questa rupe, dal vertice acuminato, si trova lo strano luogo, denominato Orto de la Cicuta, che è una pianta erbacea, la quale, se mangiata, provoca la morte. Ma per fortuna, ‘colui il quale assaggia la cicuta, fa appena in tempo ad iniziare a masticarla che subito la sputa (per il suo gusto amaro). Ma, per disgrazia, chi mangia la cicuta, stai pur sicuro che non la risputa (per la sua grande velenosità)’. Il Diàntene riprende il noto detto popolare «Chi asàggia la cicuta, de siguro la risputa» ed il suo contrario: «Chi se magna la cicuta, de siguro ’n la risputa». Il fitotoponimo popolare Orto de la Cicuta allude, in realtà, alla pianta della ferula (Ferula sp.), particolarmente abbondante in questo luogo e abbastanza somigliante, nell’aspetto esteriore, alla vera e propria cicuta. Entrambe le piante appartengono alla famiglia delle Ombrellifere.

51 «De Sigillo, sul monte, c’èn le Cèse, che così ènno dette, ché venìvon fièse.»: ‘Sulla montagna sigillana ci sono Le Cèse, che sono così chiamate a causa del fatto che le loro macchie venivano periodicamente tagliate («fièse» = ‘tagliate’)’. Il Diàntene fornisce un’errata interpretazione etimologica (“paraetimologia popolare”) del nome di un’importante località montana sigillana, Le Cèse, caratterizzata da uno spettacolare e fiabesco bosco plurisecolare di faggio e carpino bianco, che era un tempo sottoposto al taglio e nelle cui radure venivano seminati alcuni cereali e piantate le patate. Le cèse erano, in effetti, ‘luoghi disboscati, dissodati, e, talvolta, arsi per la messa a coltura’.

52 Il Diàntene prende ora a narrare una storia popolare, tramandàtasi oralmente nel paese di Aiale di Scheggia: quella, assai singolare, della Capra Bergólla. La storia è nata in seno alla cultura espressa dall’intensissima pratica dell’allevamento caprino, oggi caduta completamente in disuso, e che trovava un luogo davvero d’elezione nella rupestre gola calcarea della Foce de Sòmbo, costituendo un’essenziale fonte di sostentamento per le locali popolazioni appenniniche. L’attributo linguistico di Bergólla, riferito a questa fiabesca capra, si riferisce al nome popolare d’una tipica malattia di questi ruminanti, il bergóllo, appunto. Per augurare ad una persona il peggior male del mondo, gli si diceva, ad esempio: “Te ’nìsse ’l bergóllo, comme da le capre!” = ‘Ti cogliesse il bergóllo come avviene alle capre!”

Fino al primo Ottocento, si credeva che il dente delle capre fosse “velenoso e mortale per le piante”, poiché questi animali facevano strage d’ogni genere di vegetazione, “desertificando” letteralmente, con il tempo, il loro abituale territorio di pascolo.

«Drent’a la Foce, detta già de Sómbo, dove ch’al lampo s’acompàgna ’l rombo, versa’a L’Aiale, ogn’òmo che risale, arìschia forte da sentìsse male, ch’arancàndo su per quélo spiómbo, ogni fuscéllo pesa più del piombo. Su ppe’ ’sta foce, dove l’erba bólla, ce sta ’ntanata la Capra Bergólla. Ch’è così detta, perché ’n male grosso, tutto quanto j’asassìna ’n’osso, che così è detta, perché ’n male rógno, tutto quanto jje rovina l’ógno. Lóngo e dritto con corno, ed uno storto, mai da nisciuno, ’tista, ha fatto torto. Salva la pelle, del lupo, dal morso, stando niscòsta drent’a Grotti l’Orso. E, dettoquìne, fa sempre vedetta, perché ’l Maligno ’n faccia la vendetta, e, più che altro, bada che i freghétti, del male ’n càdeno drent’ai trabocchetti. Pe’ smacchia’ ’l bosco, i vecchi pecorari, spesse volte ’dopraveno i somari, ma, mèjjo dî somari, èreno i muli, ’taccati, in imbasciàta, per i culi. Pascelupana, ’na somara bianca, carcava ’n mondo, da l’una a l’altra anca. Su La Strada del Sasso, a Costaciàro, c’è ’nco’ ’nna Curva, detta del Somaro. Somarari e gavallari ’l Monte guèrna, ma nisciùn batte quelli de Chiasèrna!». = ‘All’interno di quella splendida gola calcarea, La Foce, altrimenti conosciuta come Foce de Sòmbo, dove al lampo segue immediatamente il rombo di tuono (questa concava valle funziona un po’ alla stregua di una naturale cassa di risonanza, amplificando il rumore dei tuoni), ogni uomo che abbia a dover risalire dai Fondi della Foce de Sòmbo (il fondovalle di questa gola) verso il paese di Aiale, seguendo un antichissimo tracciato armentario, scavato, a tratti, nella viva roccia calcarea rosata ed attraversante la pericolosa Balza del Capetèllo, rischia forte di andare incontro ad un malore, poiché, arrancando su per quello strapiombo, ogni fuscello che porta gli sembra diventare più pesante del piombo. Su per questa valle stretta, in un luogo ove vi sono erbe urticanti («L’erba che bólla», loc. Letteralmente: ‘quell’erba che provoca bolle’), che come l’ortica sono avidamente appetite dalle capre, ci vive rintanata la Capra Bergólla, che è così chiamata, poiché un male grave le rovina completamente un osso, quello del ginocchio, che è così denominata, perché una malattia rognosa («Rógna», agg., forma contratta di ‘rognosa’) le danneggia tutto quanto lo zoccolo («Ógno», s.m. Letteralmente: ‘unghio, unghia’). Con un corno lungo e diritto ed un altro storto, questa capra non ha mai fatto uno sgarbo a chicchessia. Essa scampa dagli agguati che le tende il lupo, standosene rifugiata all’interno di Grotti l’Orso. E, proprio da qui, essa fa sempre la vedetta, per far sì che i ragazzini non vadano a finire nei molteplici tabocchetti tesi loro dal Maligno. I vecchi pastori per tagliare («Smacchia’», v tr., denominale di macchia. Es.: “Smacchia’ la legna”, ecc.) il bosco adoperavano sovente i somari, ma, nell’espletare tale funzione, meglio di questi ultimi erano senza alcun dubbio i muli, che venivano spesso legati in una fila indiana, denominata “ambasciata”, perché somigliavano ai cortei di cavalli, di cui si servivano gli antichi ambasciatori. Un tempo, una somara di Pascelupo, nata singolarmente albina, riusciva a caricare una grandissima quantità di legname, ben sistemato ai due fianchi dell’animale (baràste, s.f. pl., è il nome popolare di questo tipo di disposizione del carico della legna sull’animale, che deriva dal greco e significa ‘ciò che giace a lato’). Lungo l’antichissima Strada del Sasso di Costacciaro, si incontra, ancora oggi, una svolta di tratturo, significativamente denominata, a causa della sua ristrettezza dimensionale e del suo essere a gomito, La Curva del Somaro. Questo nostro monte dà ancora da vivere a molti “somarari” e “cavallari”, ma, fra questi, i migliori in assoluto, sono, senza dubbio alcuno, quelli di Chiasèrna’ (a Chiasèrna di Cantiano, il mestiere del “cavallaro” è ancora vivo, sebbene si vada rapidamente rarefacendo. Nello stesso paese si alleva un bellissimo cavallo che ha recentemente assunto la dignità di razza: Il Cavallo del Catria).

53 Da talune interviste di Gianni Stefanati, Maria Chiara Ronchi e Roberto Roda, effettuate nell’anno 1986, sulla leggenda del Paladino Orlando nel territorio di Costacciaro, apprendiamo quanto segue.

«Nel territorio del Comune di Costacciaro vi è innanzitutto un colle segnato come Col d’Orlando; scarsi i riferimenti di tradizione orale in merito: «L’abbiamo sempre inteso chiamare così», è stata la risposta più frequente. Va tuttavia segnalata la testimonianza raccolta da Roberto Roda nel 1986 (inf. Giovanni Coldagelli di Coldagello) che colloca sul colle lo scontro fra Orlando e Golia (gigante o drago, a seconda delle versioni) e costituisce l’episodio introduttivo della leggenda legata alla presenza -in prossimità delle Frazioni di Villa e Coldagello- di cinque evidenti «tagli» nella roccia. A questo proposito le versioni popolari della loro origine sono due e spesso si presentano in forma di contaminatio. Nel capoluogo è nota la versione secondo la quale a produrre gli spacchi sarebbe stata la mano del diavolo.

È interessante viceversa notare che più ci si avvicina alla zona dei tagli e più la leggenda del diavolo tende a scomparire per essere sostituita da quella di Orlando.

«Quello che posso dir io, è anche quello che si tramanda da generazione in generazione, è la famosa storiella, dicevano che Orlando con ’na mano ha fatto quei spacchi.

D. Ma Orlando chi era?

R. Parlando di Orlando si intende dire Orlando Furioso».

(Renato Morelli, a. 72)

«Una volta ci era passato uno, con la manata han detto.

D. Ma di chi era la mano, di una persona, di un gigante, del diavolo?

R. No, questo no, solo che con la mano, dice, così, detto per detto».

(Anonimo avventore del bar di Villa, a. 75)

Proseguendo verso Coldagello la leggenda si arricchisce di nuovi particolari e alla «mano» si sostituisce la «spada».

«Risulta che la zona al di sopra dell’attuale cimitero vicino la località Caprile è chiamata colpi d’Orlando e secondo la tradizione, quello che i vecchi hanno tramandato, Orlando infuriato da ’na certa operazione, scendendo verso la valle co’ la spada, sul crinale della montagna inferse alcuni colpi, sono rimaste quelle tracce che chiamano sempre i colpi d’Orlando, cinque, quattro cinque, li ha dati perché era infuriato, ci ha avuto un qualche diverbio con qualcuno».

(Vergari Nazzareno, a. 61)

«Per sapere nostro, allora c’era ’sto Orlando che c’aveva il cavallo giù alla fontana dell’acqua santa, ’sto cavallo è morto, no, dopo lui si disperava, ’sto cavallo e allora è andato su e ha dato cinque spadate».

(Gambucci Angelo, a. 71)

Ma la leggenda più completa è quella fornita da Giovanni Coldagelli (di Coldagello a. 65) che dichiara di averla appresa da un vicino di casa, Ruggero Brunamonti (a. 75), un tempo apprezzato cantore in ottava rima e «lettore» per il borgo. Proprio in uno dei testi che il Brunamonti era solito declamare nelle serate invernali si trovava il brano relativo ad Orlando a Costacciaro.

«Allora questo Urlando Furioso era un guerriero. Qui sulla nostra montagna c’era il… drago, no, che era? Un drago? Golia si chiamava? Drago Golia, un potente, forte.

Passa Orlando Furioso a cavallo armato di spada, si sono incontrati e han fatto la lotta.

Co’ la lotta che ha fatto l’ha ammazzato, Orlando su a Cor d’Orlando, core d’Orlando, il coraggio avuto da Orlando.

Da lì ’sto Urlando è andato all’Acqua Santa ad abbeverare il cavallo, il cavallo ha bevuto che era sudato ed è morto.

Si è messo seduto con la sua spada, Durlindana si chiamava la spada, sui ginocchi, gli è cascato un capello sulla spada attraverso (‘a traverso’), dice tò; s’è accorto che era rotta la spada, dice: la spada è rotta, il cavallo è morto, voglio morire anch’io. Mentre piglia s’alza in piedi, era un capello che c’era andato attraverso (‘a traverso’) la spada. Ha preso ’sta spada, è andato su quel poggio che sta sopra al cimitero, ha dato cinque colpi. La leggenda è questa, cinque spadate, la spada era sana, non era più rotta».

(Coldagelli Giovanni, a. 65)

Rispetto a diverse lezioni della leggenda raccolte dallo stesso informatore a distanza di tempo o da altri non vi sono molti elementi di differenziazione, se non nella figura di Golia descritto anche come «gigante, selvaggio armato di mazzafrusta», il che è indice di una fonte unica, si tratti di persona o libro, nonché di un’origine che sembra non abbia dato spazio a variazioni individuali e a possibili ramificazioni arricchite delle vicende narrate».

(Cfr. Gianni Stefanati - Maria Chiara Ronchi, Un itinerario orlandiano tra Umbria e Maremma. Rapporto etnografico. In: Galletti, A. I., Roda R. [curatori], 1987, Sulle orme di Orlando. Leggende e luoghi carolingi in Italia, Padova, INTERBOOKS, pp. 197-200).

54 Questo chiavicotto, di Villa Col de’ Canali, prendeva, un tempo, il nome improprio di ponte, poiché era fornito di spallette e parapetti, sopra i quali i passanti amavano soffermarsi a chiacchierare. Riferendosi ad esso, i bambini di Villa Col de’ Canali recitavano la seguente filastrocca: “Io ’l véggo, ma ’n l’anségno: sott’al Ponte del Ponticéllo!”. Tale sorta di scioglilingua voleva significare ironicamente il fatto che i bambini avevano visto alcune coppiette amoreggiare, di soppiatto, sotto al ponte, o, ancora, che essi avevano assistito all’apparizione d’inquietanti presenze, che si volevano legate alle acque, come il “Lupo Manàro” (‘lupo mannaro’) e la “Géa”. Stando a consimili racconti, unicamente tràditi per via orale, altri periodici avvistamenti del lupo mannaro sarebbero stati fatti sotto presso il ponte del Torrente Rio, che, un tempo chiamato Flumen Rivi Sancti Donati (poiché attraversava la Villa di San Donato, oggi conosciuta con il nome di Caprile), scavalca il corso d’acqua nei pressi del cimitero comunale di Costacciaro.

55 Il verbo popolare urla’, ‘urlare’, riferito al lupo, significa ‘ululare’.

56 La Bestia Cupa è ‘il demonio’.

57 La Bestia Piòta è un essere favoloso, abitatore enigmatico delle grotte di Monte Cucco, concepito dall’immaginazione dell’autore. La locuzione bestia piòta, invece, il cui secondo elemento deriva dall’aggettivo latino plauta, ‘lenta’, ad Isola Fossara, indica realmente ‘un animale domestico lento nei movimenti e, non di rado, di costituzione debole’.

58«Malco»: storicamente è il servitore del Sommo Sacerdote, cui san Pietro tagliò un orecchio con la spada. Per la tradizione di Villa Col de’ Canali, invece, incarna lo spirito stesso del male, e, dunque, rappresenta il demonio. «Malco»: possibile ipocoristico apocopato di Malcometto, variante morfologica medioevale di ‘Maometto’, identificato, ahimè, a quell’epoca, con il diavolo. Secondo una variante della leggenda popolare, i spacchi l’avrebbe realizzati, dunque, un tale Malco, o, come è detto, che era considerato lo stesso, dal diavolo. Non è escluso che, con il termine Malco(metto), si volesse alludere ai Saraceni, che invasero le nostre aree nel X secolo.

59 «I Spirti» sono gli ‘spiriti’, specie quelli del male.

60«Dragolétto»: altro nome popolare del diavolo. Ai bambini disubbidienti di Villa Col de’ Canali si diceva talvolta: «Si nno’ stai bòno, chiamo ’l Dragolétto!».

61 «Ppo’, de le volte, èccote Gnavolóne, ’nti panni, bócco, de ’n grosso saccolóne.» = ‘Poi, di tanto in tanto, ti vedi improvvisamente comparire anche quel diavolo “trasformista” che va sotto il nome di Gnavolóne (la forma lessicale popolare «gnavolóne», s.m., costituisce una rara variante morfologica del termine diavolone), il quale, spesso, appare nei panni («[…] ’nti panni, bócco […]», letteralmente «boccàto», agg. e part. pass., vale a dire: ‘entrato nei panni’)di un frate vestito con il saccone («saccolóne», s.m.). L’epiteto dispregiativo di saccolóne è, talora, affibbiato ad una persona grossa, grassa, sgraziata e malvestita. Linguisticamente, tale voce popolare rappresenta una variante morfologica di saccóne, indicante, un tempo, ciascun membro dell’omonima confraternita medioevale, e, poi, per estensione semantica, e con connotazione fortemente dispregiativa, frati, preti e religiosi in generale. Si consideri, per confronto con la forma saccolóne, lampante accrescitivo di ‘sàcco’ (formàtosi attraverso la fusione in sintagma del diminutivo sàccolo con il suffisso accrescitivo e dispregiativo -óne), come una ‘piccola sacca’ sia spesso chiamata saccolétta, (s.f.).

62 «Tòrge i budelli» = ‘contorcere le budella per la paura’.

63 «Mazzamurèlli» o Mazzamorèlli = ‘spiritelli burloni che apparirebbero durante gli incubi’.

64 «Suda» = ‘trasuda’, a causa dell’abbondante stillicidio da cui sono caratterizzate certe zone di questa parte della montagna, vale a dire il Rio Freddo.

65 ‘Mangia i teneri germogli delle piante’.

66 Voce verbale derivata da spizza’, ‘spizzare’, qui inteso nella rarissima accezione di: ‘mangiare i pizzi’, cioè gli apici di foglie e giovani germogli.

67 La «Capra ’Gnuda» (’gnuda è la forma femminile dell’aggettivo popolare ’gnudo che sta per ‘ignudo, nudo’, cioè ‘senza pelle’), classica incarnazione zoomorfa del diavolo, è un misterioso, malefico animale che si diceva popolasse un tempo le parti più remote e selvagge delle nostre montagne. La storia di questo favoloso essere potrebbe avere connessioni attendibili con alcune leggende celtiche, relative alla biche blanche, vale a dire alla ‘cerva bianca’.

68 «Do’ l’acqua se crea» = ‘nella Grotta di Monte Cucco, dove si raccolgono le acque sotterranee del Torrente Scirca, prima di venire alla luce dall’omonima risorgente carsica, che ha una portata media annua di 190 litri al secondo’.

69 «’mbugàta» = ‘rintanata’.

70 «sbiancuciàta» = ‘bianca di un pallore cadaverico’, perché vive nella perenne oscurità delle grotte.

71 «’Gèa» = ‘Igea, dea della salute presso i Romani’. Eco lontane e flebili del suo culto sono sopravvissute nelle campagne di Gubbio fino a circa trent’anni fa. In queste aree rurali, infatti, per spaventare i bambini, che si avventuravano nell’oscurità delle cantine, dove avrebbero rischiato di cadere in tinozze o vasche piene d’acqua, si diceva loro: «Sta’ atènto, ché lagiù ce sta la ’Gèa». Ad Igea, che era la dea della salute, identificata talora con l’igiene del corpo, venivano spesso associate le acque e le pràtiche, igieniche e rituali, ad essa collegate.

72 «Fonda» = porzione più depressa di una valle.

73 Si tratta dell’alta Valle delle Prigioni. Il toponimo Fosso del Cupo vale ‘fosso della concavità della profondità’. Secondo un racconto di Imero Bianconi di Villa Col de’ Canali (Imero Bianconi, in verbis, 8-9-2001), racconto appreso dai suoi vecchi, al Fosso del Cupo del Monte Motette le anime dei morti si sarebbero spesso manifestate ai loro cari viventi.

74 Ci si riferisce alla località ’L Giardino del Diavolo, situata sul versante meridionale del Monte Motette. All’origine del nome di luogo dovrebbe esserci una efficace metafora, impiegata per descrivere l’asprezza ed assoluta infertilità di questo sito, dove non crescono che arbusti spinosi, ortica e cicuta.

75 Si tratta di una forma d’erosione della roccia calcarea, riscontrabile nella porzione iniziale della Valle delle Prigioni. La fantasia popolare vi riconosce l’impronta di una gigantesca scarpa: quella del diavolo. Dagli abitanti di Pascelupo, infatti, l’incàvo naturale viene ancora oggi chiamato La Scarpa del Diavolo.

76 Il sostantivo maschile ùcco sta per ‘urlo’.

77 Secondo un’antica tradizione di Costa San Savino, il Gigante Monte Cucco sarebbe stato una sorta di fauno dei nostri monti, o, meglio, un bonario uomo selvatico, entrato in tale armonia e simbiosi con la montagna “da assumerne persino il nome e l’imponente sembianza” e da incarnarne lo spirito stesso, forte e buono ad un tempo. Parafrasando Chanson pour les enfants l’hiver, una celebre poesia di Jacques Prévert, all’indirizzo del nostro gigante buono, si potrebbe tranquillamente scrivere: «Dans la nuit de l’hiver/galope un grand homme blanc /[…] C’est un bon homme de neige/ […] un grand bonhomme de neige/ poursuivi par le froid/ Il arrive au village /[…] voyant de la lumière/ le voilà rassuré/[…] Dans une petite maison/ il entre san frapper/[…] et pour se réchauffer/s’asseoit sur le poële rouge/ et d’un coup disparaît/ […]».

78 Il gigante Sanìa è il protagonista negativo di un racconto popolare di Costa San Savino, che lo vuole distruttore di una grande e civile città denominata Sanìa e mortale feritore di Orlando paladino, che si sarebbe battuto con lui per la difesa di questa città, che doveva sorgere nell’odierna località scheggina Val de Sarnìa. È possibile che, dietro questa leggenda, si celino le distruzioni belliche subite dalla florida e civile statio romana di Ad Ensem, l’odierna Scheggia (incarnata dal paladino Orlando, difensore, in questa narrazione, della civiltà romana contro quella germanica. Si pensi come, ad Assisi, sia ancora viva una leggenda, secondo la quale Orlando duellò e vinse per liberare la città dai Langobardi), in séguito alla discesa di popolazioni di stirpe germanica (incarnate dal malvagio gigante Sanìa) alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Eco lontane e flebili di questi eventi luttuosi ci sono giunte anche attraverso la tradizione orale popolare di Scheggia, che, probabilmente, individua nella vasta Città Luceoli, di cui non sarebbe rimasta in piedi che una superstite “scheggia”, i ricorrenti e cruenti episodi di distruzione bellica, verificatisi attraverso il tempo, sin dalle origini di questa terra.

79 L’aggettivo e participio passato ’nciferìto appare costituito da una forma aferetica del nome Lucifero (vale a dire ’cìfero, per deglutinazione di lu- iniziale, avvertito come articolo determinativo maschile singolare), e, dunque, significa ‘indiavolato’. Di una persona brutta e cattiva si dice infatti spesso che: «Pare ’n ’cìfero».

80 Taluno confonde questo Orlando paladino con un omonimo uomo solitario che, tra il 1700 ed il 1800, viveva sul Col d’Orlando, stanziando, d’estate, all’interno di una capanna, mentre, d’inverno, si spostava in un’altra capanna situata sulla Val di Ranco di Sigillo.

81 Si tratta di un’antecima del Monte Le Gronde: il Còr d’Urlando (letteralmente: ‘cuore, coraggio di Orlando’). La tradizione orale popolare di Costa San Savino, Coldagello e Costacciaro, vuole che qui, Orlando paladino, esalasse l’ultimo respiro, dopo essere stato ferito a morte dal gigante Sanìa (o Golìa, volta a volta identificato con un “gigante selvaggio, armato di mazzafrusta”, o con un drago) presso Scheggia, dove, si dice, sorgeva una grande città denominata, come il gigante, Sanìa. Sanìa, Sarnìa o *Esarnia, che rappresentano altrettanti toponimi d’origine osco-umbra, dovrebbero essere i probabili nomi dell’insediamento preromano di Scheggia, il quale, in epoca romana, cambiò il nome in Ad Ensem, e, infine, nell’Alto Medioevo, in Sclizia, probabile germanismo toponimico. Orlando, gravemente ferito, e, credendo, per giunta, la propria spada irrimediabilmente incrinata, si sarebbe diretto, per la Strada dei Romìti, verso il Monte Le Gronde in sella al suo bianco destriero. Giunto sopra il Monte Poggio Foce, avrebbe “dato cinque ribuste spatasciàte” contro il margine di tale montagna, vuoi per sfogare la stizza accumulata per essere stato sconfitto ed umiliato, vuoi per saggiare la consistenza e verificare l’integrità della propria meravigliosa spada Durlindana, che, alla prova della dura roccia, risultò, come sempre, incredibilmente salda. In realtà, infatti, la presunta incrinatura della spada altro non sarebbe stata se non un crine (“crìno”) del suo fedele cavallo o un capello dello stesso Orlando (o “Rolando”). Giunto, a seconda delle differenti versioni del racconto popolare, presso la Fonte de l’Acqua Santa, o il Fontanile de La Ternìtà, o presso quelli de L’Acqua Pàssera, o Ghiacciata, si sarebbe poi visto perire il fedele ed “accaldato” cavallo per un’eccessiva e troppo rapida ingestione d’acqua gelida, cavallo che, come si racconta da taluno, […] “mòrse pe’ ’nna bùta d’acqua ghiàccia” (‘morì per una bevuta di acqua gelida’). Secondo altre versioni della stessa leggenda, la “singolar tenzone” tra Orlando e Golìa (o Sanìa) si sarebbe svolta non già a “Città Sanìa” (Val de Sarnìa), bensi proprio sul Còr d’Urlando (fonti indirette: Ruggero Brunamonti [cantore in ottava rima e pubblico lettore dell’Orlando Furioso] e Giovanni Coldagelli, entrambi di Coldagello, a. 1986). Ruggero Brunamonti sosteneva che la leggenda dell’“Orlando costacciarolo”, egli l’avesse trovata scritta in un antico libro. Altri ancora raccontavano che i Cinque Spacchi del Diavolo erano stati aperti da Orlando stesso “co’ ’na gran manata”(fonte indiretta: Renato Morelli di Villa Col de’ Canali, a. 1986). Da Nazzareno Vergari, di Costacciaro, i Cinque Spacchi del Diavolo erano chiamati “colpi” .(Cfr. Galletti, A. I., Roda R. [curatori], 1987, Sulle orme di Orlando. Leggende e luoghi carolingi in Italia, Padova, INTERBOOKS, pp. 197-200).

82 «Bastignando» = ‘bestemmiando’.

83 «Ógno» = ‘unghia’ (specie di un animale).

84 L’espressione «Ponta’ jj’ogni» vale, letteralmente, «puntare le unghie», cioè: ‘affondare le unghie, allo scopo di resistere ad una forza, materiale o morale, avversa’.

85 Una leggenda di Costacciaro narra che il diavolo, passando “furiosamente” una notte (il demonio, essere ctonio per eccellenza, si manifesta ed opera essenzialmente con il favore delle tenebre, restandosene latente nelle ore del meriggio) per questi luoghi, dette una “gran smanàta” al margine del Monte Poggio Foce, stampandovi per sempre l’impronta delle cinque dita della sua mano. Il luogo, in cui si vedono cinque grandi fenditure, di epoca imprecisabile, ma di sicura opera umana, è ancor oggi detto I Spacchi o I Cinque Spacchi del Diavolo (cfr. sull’argomento: Bellucci, G., 1884, Il Colle di Orlando presso Costacciaro, “Annuario”, Sez. C.A.I. di Perugia, disp. I, p.7).

86 Secondo un racconto popolare di Costa San Savino, a praticare le cinque grandi incisioni degli Spacchi fu, invece, il paladino Orlando, che, sconfitto in duello dal gigante Sanìa, e dirigendosi incontro al suo fatale destino verso la vetta del Monte Le Gronde, passando per questo luogo, volle sfogare la rabbia accumulata in séguito alla sconfitta, dando, con la Durlindana, cinque grandi “spatasciàte” (‘spadate’. Spatàscia = ‘spada’ < ‘spatha’ + ‘ascia’, cioè a dire una spada che è usata come l’ascia, che fa la funzione della “cétta da pacco”, vale a dire ‘dell’accétta per spaccare la legna’) alla roccia del Monte e aprendovi, così, le attuali cinque fenditure, simili ai merli di un castello. Il paladino Orlando, che apre nella roccia i cinque spacchi con la spada, s’apparenta idealmente a re Artù, fanciullo, che estrasse la spada dalla roccia. Secondo la testimonianza orale del signor Giovanni Morotti di Costacciaro (13-XI-2001), sui Cinque Spacchi del Diavolo talune persone, avrebbero casualmente rinvenuto esigui oggetti di metallo, forse interpretabili come utensìli ed amuleti, impiegati, forse, in antichi riti satanici. Per il signor Amedeo Costanzi di Villa Scirca, la croce un tempo confitta nei pressi degli Spacchi avrebbe avuto la funzione di tenere a distanza il demonio; in realtà, sembra che essa sia stata piantata per ricordare un uomo ivi colpito ed ucciso da un fulmine (cfr. Vietato non fermarsi. Guida turistica (e non) realizzata dai ragazzi della Scuola Media “Efrem Bartoletti” di Costacciaro, Edizioni Scuola Media “Efrem Bartoletti”, Costacciaro 2000, p. 13).

87 «Quann’a la sera calla giù la sfera, ’m po’ prima che del ciel l’aria s’annéra, de ’sta mane s’alùnghen tutti i déti, toccando ’n punto del monte dei Moréti. ’Nte ’l pòsto esatto, ’nsegnato da ’sta mano, c’honno setóro ’n grande capitano; si de conosce ’l nome suo c’hai sete… quann’era vivo jje dìsser Narisète.» = ‘Quando, a sera, tramonta la sfera del sole, un poco prima che l’aria del cielo divenga completamente nera, si distendono tutte le dita di questa mano (“La Mano del Diavolo”, altro nome popolare de “I Cinque Spacchi del Diavolo”), fino a toccare un punto, presente sul Monte de I Moréti. Nel punto esatto indicato da questa mano, qualcuno seppellì un grande capitano generale; se la sete di conoscenza ti stimola a conoscere il suo nome, sappi, che, quando era in vita, costui ebbe il nome di Narsete’. Secondo una ormai pressoché desueta tradizione orale popolare di Costacciaro, la luce radente delle ore prossime al tramonto, passando per I Cinque Spacchi del Diavolo, verrebbe proiettata in un punto preciso della retrostante montagna. In questo punto esatto sarebbe stato sepolto un certo “Narisète”. Gli Spacchi sarebbero, dunque, stati concepiti proprio per indicare ai posteri il luogo di sepoltura di Narisète, vale a dire del generale bizantino Narsete, che sconfisse Baduila (o Totila), re degli Ostrogoti, nel 552 d.C., nei pressi di Fossato di Vico o Gualdo Tadino. Tuttavia, la storia insegna che Narsete (vincitore di Totila, il quale, ferito a morte, dovette essere rapidamente sepolto) poté fare ritorno in patria, dove fu solennemente celebrato il suo trionfo.

88 «Monte vano» = ‘Monte cavo’.

89 In una pergamena del 1339, appartenente alla Comunanza Agraria degli Uomini Originari di Costacciaro, passando in rassegna i confini del castello di Costacciaro (Castrum Collistacciarii) e della sua curia, si cita un fossato confinario col nome di «fossatum Sirbani», cioè, appunto, ‘Fosso di Sirbano’. La forma medioevale Sirbano rappresenta variante, foneticamente evolùtasi, del teonimo latino Silvanus, ‘Silvano’, il dio delle selve e del bestiame domestico, che, fra le altre cose, era anche, e assai significativamente in questo caso, ‘protettore dei confini’.

90 «’Niva» = ‘veniva, scendeva’.

91 Di molto probabile origine germanica è il sostantivo maschile dialettale drugolóne, che indica un ‘giovane grande e grosso’ e, soprattutto, ‘di modi grossolani’. Il termine dovrebbe rappresentare una forma, foneticamente evoluta, dell’italiano antico drudo, ‘amante leale’, ma, anche, ‘ganzo’. Drudo è voce d’origine germanica, penetrata in Italia probabilmente in seguito alla discesa delle popolazioni germaniche col declino e la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. I Franchi conoscevano tale termine sotto la forma drüd, ‘fedele’.

92 Timolaónte o Timoleónte è un nome, storicamente documentabile, portato da un uomo di Isola Fossara, scomparso ormai da molti anni. L’uomo era soprannominato Tìmole o Tìmolo. Il personaggio buono di Timolaónte, una sorta di uomo selvatico, bonario e generoso, descritto dal Diàntene è di pura fantasia. Il nome personale è, come Timolao, di cui pare una derivazione, di possibile origine greca o greco-bizantina. Timoleonte fu nome già presente, in Sicilia (Gela), nel 337 a. C.

93 «’St’òmo» = ‘quest’uomo’.

94 «Foràstico» = ‘selvatico, selvaggio, umbratile, schivo ed elusivo’. Semanticamente, il termine costituisce il contrario di ‘domestico’.

95 «Bughe» = ‘grotte’.

96 «S’amùcchieno» = ‘si affollano’.

97 «Le paure» = ‘le incarnazioni di tutte le cose che spaventano l’uomo’. Queste ultime, passerebbero le ore diurne ben nascoste nelle tenebre delle grotte, per poi manifestarsi con il favore delle tenebre.

98 «Lóngo» = ‘alto’.

99 «Pìgo» = ‘arnese di legno, lungo ed appuntito, piolo’.

100 Questo’arcaico e strano nome, attribuito ad un’egmatica figura d’uomo di Isola Fossara, che alcuni ultranovantenni del paese sostengono sia realmente esistito, con il nome di battesimo di Cesare, dovrebbe celare antiche credenze relative a fauni od uomini selvatici, vagabondi abitatori dei boschi e propizi od ostili al buon andamento delle attività umane silvo-pastorali, a seconda del comportamento tenuto degli uomini nei loro confronti. Un altro di questi “dèi Pan o Silvani nostrali” è incarnato dalla figura, umbratile ed elusiva, del Gigante Monte Cucco. Il nome o soprannome Zigo potrebbe risalire al greco-bizantino ’, ‘silenzio’ (a causa della grande silenziosità di quest’essere), o ó/ó, ‘giogo’, e, per estensione metaforica: ‘sommità dei monti’. L’antroponimo, di tradizione popolare, potrebbe altresì rappresentare un ipocoristico apocopato di nomi d’origine germanica, costituiti dal segmento di composizione nominale *sigu-, ‘vittoria’ (es.: Sigfrido, Sigismondo, ecc.).

101 «Limòsina» = ‘elemosina, carità’.

102 «Jje la» = ‘gliela’.

103 «Dévi» = ‘davi’.

104 «Guardava» = ‘sorveglia, vegliava, custodiva’.

105 «Gne la» = ‘non gliela’.

106 «Te féva le modèstie» = ‘ti faceva le molestie, ti molestava’.

107 «S’alontanàva» = ‘si allontanava’.

108 «E déva fòco da tutte le stalle» = ‘e appiccava il fuoco a tutte le stalle’.

109 «Canne» = ‘unità di misura di lunghezza, in uso fino al XIX secolo’.

110 «Ad arde» = ‘a ardere’.

111 «’N potere lue» = ‘un potere lui’.

112 «Staccava ’l volo senza avécce l’ale» ‘si levava in volo senza avere le ali’. Questo particolare del racconto popolare esposto dal Diàntene è di pura fantasia.

113 Secondo la tradizione orale popolare di Villa Col de’ Canali, Zìgo sarebbe stato un famoso brigante, che si spostava sempre sotto la protezione della sua banda: “la banda de Zìgo”. Toponimi come L’Antro dei Briganti, La Grotta dei Ladri, La Balza del Bandito, ecc., testimoniano l’esistenza di un periodo di intenso brigantaggio nelle nostre zone. Ad una persona scaltra e “rapace”, si usa dire: «Sai peggio de Zìgo!», mentre, all’indirizzo di un gruppo di persone dal comportamento furfantesco, si rivolge l’espessione «Paréte la banda de Zìgo», vale a dire: ‘sembrate la banda di Zìgo’.

114 «Per la mentalità arcaica, la bianca fioritura del pero era il riflesso della Luna divinizzata. Ora, questa splendeva sul mondo dei morti, da cui il carattere spesso sinistro che quest’albero ha conservato nel folclore». Cfr. Jacques Brosse, Storie e leggende degli alberi, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1991, p. 172.

115 Lungo la strada che da Isola Fossara conduce a Fonte Avellana sorgeva un grande, vecchio e “nodróso” “peràio”, da tutti conosciuto come Pero del Diavolo. Chiunque passava dalle parti di quel pero, si teneva bene alla larga da quella pianta, poiché, passandovi vicino, avrebbe certo rischiato di vedersi comparire il diavolo in persona e sarebbe stato trafitto e raggelato («ghiadìto», agg. e part. pass., tratto, metaforicamente, dal latino gladius, ‘spada corta’, poiché chi è raggelato dal freddo diverrebbe rigido e gelido come la lama d’una spada, o resterebbe “ripréso”, cioè a dire ‘teso, rappreso’, come chi, trafitto dalla spada, fosse colto dal rigor mortis, vale a dire dalla ‘rigidità della morte’) dalla paura. L’albero si è seccato da molti anni e pare non esisterne più neanche un “trincicóne”, vale a dire nemmeno uno ‘spuntone’, un ‘moncone’.

116 Secondo un suggestivo racconto, fàttomi dall’ottantaquattrenne signora Velia Braccini di Campitello, un grande diavolo dalla lunga lingua di fuoco “a traginóne” inseguì, per la montagna di Campitello, un uomo ateo e gran bestemmiatore per sottrargli l’anima. Il demonio terrorizzò a morte l’uomo, arandogli un campo con la stessa lingua.

117 Taluno vuole che il “demonònimo” Bofógno derivi da una contrazione dei due termini latini bis, ‘due volte’ e funus, ‘morte’, con il significato complessivo di ‘morte due volte’, indicando così il demonio che, con le sue tentazioni, conduce l’uomo alla «morte secunda», vale a dire alla morte dell’anima. Una piccola chiesa di Costacciaro era dedicata a Sancta Maria de Orcu, vale a dire a ‘Santa Maria degli inferi, della morte’, a Colei, cioè, che avrebbe protetto gli uomini dalla morte e consentito loro di affrontare serenamente il trapasso.

118 «Viddi la léngua, lónga, del dimògno, la viddi lónga, ma nonn’era ’n sogno. Viddi la léngua ròscia, a spendolóne, del dimògno, comme ’n seghettóne. Viddi ’n serpente lóngo, lóngo, lóngo, ch’a mesuràllo ’nn’arìva ’nno stóngo. E ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, ’l codino lue stacciàva, ribirato; e ’l cul mostrando, ch’era ’ncapuzzàto, me fece, pe’ la ppèsta, ’mpunta’ ’l fiato. I corni viddi lónghi de Bofógno, jje viddi i corni, e l’arbirato ógno. Alóra ’nn’ància ’ntési, drent’a jj’òssi, che fatto me sarìa porta’ da i fossi. Alóra ’nn’ància ’ntési, tanto forte, comme l’abràccio ghiaccio de la Morte». = ‘Vidi la lunga lingua del demonio, la vidi lunga, ma non era un sogno. Vidi la lingua rossa, penzoloni, del demonio (la tradizione orale popolare delle nostre parti vuole che il demonio abbia la lingua lunghissima, perennemente ciondolante fuori della bocca e di color rosso sangue), simile a un serpente «seghettóne», s.m., vale a dire ad un ‘saettone’ (Elaphe longissima). Vidi un serpente lungo, lungo, lungo (si tratta sempre del demonio, che, ora, appare in sembianze zoomorfe), che, a misurarlo, non basterebbe un passo stirato di un uomo («stóngo», s.m., < dal gotico *stuggs, ‘imbastitura’). E, mostrandomi il culo, poiché era confitto nella terra (il demonio è essere ctonio per eccellenza, che rifugge la luce del sole, simbolo di Dio e tende, a causa della pesantezza della pura materia di cui è composto, verso il centro della terra) a testa in giù («’ncapuzzàto» o «’ncapozzàto», agg. e part. pass.), agitava («stacciàva», f. verb., letteralmente: ‘setacciava’, vale a dire ‘faceva un movimento simile a quello, pendolarmente alternato, che si imprime, nel vagliare, al setaccio’) furiosamente la codina attorcigliata («ribirato», agg. e part. pass., letteralmente: ‘rigirata’, come quella del maiale), e, per il gran fetore («ppèsta», s.f.) che emanava, mi fece venir meno il respiro («’mpunta’ ’l fiato»). Vidi, poi, le corna di «Bofógno», s.m., (Vofiòno o Vofióne, una delle tre divinità principali, “Triade Grabovia”, del Pantheon umbro, indicata, nelle Tabulae Iguvinae, quale deità ctonia), vidi le sue corna e le unghie ricurve. Allora, provai una tale ansia («ància», s.f.), nel profondo del mio essere («drent’a jj’òssi», letteralmente ‘nelle ossa’), che mi sarei fatto trascinare via dall’eterna ed inarrestabile corrente di tutti i fossi. Allora, avvertii una tale angoscia, nelle insondate profondità del mio animo, che mi parve di sentire l’estremo, gelido abbraccio della Morte’.

119 «“San Rocco, San Rocco, ’na scarpa e ’nno zòcco!”. Col bastone San Rocco caminava, e col cane, che lo seguitava, col bordone giva Giacomino, e co’ ’nna scarsa, ’nna scarsèlla ’e vino. San Giacomo, che mai non s’amerìggia, drent’a ’na chiesa, lo venera La Schiggia. Ade’, ’nvéce, vòn via co’ l’apparécchio, màgnon, bévon, dòrmeno parécchio. Quanto, poi, a parla’ de religione, da chi ce crede, jje dìcheno cojjóne.» = ‘San Rocco, San Rocco, con una scarpa in un piede ed uno zoccolo in un altro! (antico detto popolare, indicante l’estrema povertà di pellegrini e viandanti d’un tempo). San Rocco procedeva con l’unico aiuto di un bastone e con la sola compagnia del cane che lo seguiva passo passo, San Giacomo Maggiore, invece, progrediva (tanto nella sfera fisica, quanto in quella spirituale) con una borraccia di pelle, una semplice borraccetta di vino. San Giacomo, il quale, nel suo transito terreno, non perse mai tempo a ristorarsi all’ombra «[…] che mai non s’amerìggia […]», è ora venerato dal popolo di Scheggia nella sua chiesa parrocchiale, intitolata ai Santi Filippo e Giacomo. La venerazione per San Giacomo trova ragione nel fatto che Scheggia, è, ab immemorabili, un centro di strada e di crocicchio viario, percorso, nei millenni, da stuoli di pellegrini “romei” e di viandanti in generale. Ora, invece, partono in aereo, mangiano, bevono e dormono quanto pare e piace loro. Quanto, poi, a suggerire loro di praticare esercizi spirituali, si rischia, mostrando di credere in quel che si fa, di essere considerati come dei visionari, o, peggio, dei veri coglioni’.

120 «Si ’l dimògno te vòi tène lontano, legno stregone sempre su le mano, si d’ogni strega, tu, te vòi slontana’, ’na furcina sott’al collo hai da porta’, ’n’inforchetta porta’, mo’ te lo dico, ad ogn’ora, porta’, devi de fico, mai, proprio mai, hai da voltàtte adiètro, non nomina’ mai ’l nòme de San Pietro, dei Santi, de la Madonna e Iddio, non invoca’ mai nòme, o fiòlo mio! Si tu ’nte ’n casa arporta’, vòi, tutti jj’òssi, quel che t’ho ’itto, fa in Croce dî Fossi! Tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, che da qui dista guàsi mille leghe, tutto tu fa a lo Scòjjo de le Streghe, docché arparate ce s’èn cinquanta freghe, tutto tu fa l’al Fosso che Chiacchiera, docché lavàtte tu pòssi d’ogni piàcchera, ché, sì, è chiamato, ’sto fosso, dettoquì, ché cento voci pìa l’acqua de diquì. A Lo Scòjjo de Streghe, ’no stregone, parla’ coi morti fece più persone. Si mantène, lontano, vòi Bofógno, pe’ sti lòchi passa per Sant’Antogno! Quanno ch’urla’ me sentirai tu: Vanne! Festa e fiera farai per San Giovanne. » = ‘Se tu, in questo tuo cammino, vuoi tenere lontano da te il maligno («dimògno», s.m., letteralmente: ‘demonio’), stringi tra le mani sempre un bastone di agrifoglio («legno stregone», loc., letteralmente: ‘legno che usano gli stregoni’. Il fusto di tale bastone era variamente ornato con incisioni, costituite da figure geometriche, quali il cerchio, il quadrato, il triangolo. Assai interessante s’inverava, inoltre, il motivo della “scacchiera”, che, con le sue tessere alternativamente bianche e nere, rappresentava certamente l’eterno confronto tra il bene ed il male, ma, anche, il loro reciproco annullamento e la loro sostanziale neutralizzazione), se, invece, ti vuoi sottrarre all’influenza malefica d’ogni strega, devi portare una piccola forca di legno («furcina», s.f.) di fico stretta sotto il mento e legata sopra il collo, devi portare, or ora te lo dico, sempre con te una piccola forca («’n’inforchetta», loc., letteralmente: ‘una forchetta’) di fico, non devi mai, proprio mai voltarti indietro («adiètro», avv., letteralmente: ‘addietro’) e assolutamente mai nominare, figliuolo mio, il nome di San Pietro (San Pietro è un santo, il cui nome denomina uno dei tre torrenti che formano La Croce dei Fossi. Non bisogna nominarLo, poiché, così facendo, Lo si evocherebbe sùbito, ed Egli avrebbe senz’altro a soccombere nel confronto con lo sterminato numero di presenze malefiche che infestano questo luogo) quello della Madonna e di Dio! Se, poi, vuoi riportare a casa tutte le ossa intere, fai tutto quello che ti ho detto («’itto», agg. e part. pass., forma aferetica di ‘detto’, letteralmente: ‘detto, riferito, consigliato’) specialmente quando ti troverai nella località Croce dei Fossi di Monte Cucco (Croce dei Fossi, toponimo del Monte Cucco, che ricorre in due luoghi differenti del massiccio montuoso, letteralmente significante: ‘confluenza, a forma di croce, di tre corsi d’acqua’), luogo infernale del Monte Cucco, posto in cui s’intersecano numerose forze negative e regressive. Secondo antiche credenze, qui si sarebbe aperta anche una delle porte dell’inferno)! Fai tutto quello che ti ho detto anche presso Lo Scoglio delle Streghe (altro luogo demoniaco nei pressi della Croce dei Fossi, ove, periodicamente, si sarebbero date convegno le streghe), che, da qui dove noi siamo è distante quasi mille leghe («mille leghe», loc., ovverosia una grandissima distanza. Il Diàntene vuol dire che tra il mondo solare in cui Egli vive e l’inferno intercorre una distanza grandissima ed incolmabile), fai tutto quanto ti ho detto allo Scoglio delle Streghe, sotto al quale, in un giorno di pioggia, riuscirono a ripararsi ben cinquanta ragazze («freghe», s.f. pl., Lo Scoglio delle Streghe è una cascata arcuata del Fosso di San Pietro sotto la quale possono, in caso di maltempo, rifugiarsi ben cinquanta persone), fai tutto questo al Fosso che Chiacchiera (piccolo corso d’acqua del Monte Cucco, formante piccole cascate, le cui acque pare emettano cento voci differenti, simili a tante indistinguibili chiacchiere), nelle cui acque tu potrai nettarti di tutte le macchie («piàcchere», s.f. pl., < forma diminutiva, derivata dal latino plaga, ‘piaga, chiazza, macchia’) del corpo e dell’anima, un fosso che è così («», avv., ‘così, in questo modo’) chiamato in questo luogo («dettoquì», avverbio di luogo, ‘qui’) a causa del fatto che l’acqua della cascatelle che qui diquì», avverbio di luogo, ‘qui’) precipità assume mille differenti voci. Un tempo, presso Lo Scoglio delle Streghe fece parlare con i propri defunti una grande quantità di persone (secondo un’antica credenza, propria del paese di Sigillo, col favore di questo luogo, ove esisteva una qualcosa di simile al mundus degli antichi Romani, ovverosia una specie di via pervia per passare nell’oltretomba, uno stregone sarebbe riuscito a mettere in diretta comunicazione molte persone con le anime dei propri cari estinti). Se, comunque, intendi mantenere sempre a distanza lo spirito del male («Bofógno», s.m., letteralmente Vofione o Vofiono, dio del Pantheon umbro, che presiedeva all’oscuro mondo infero), cerca di attraversare i luoghi che ti ho menzionato il 13 di giugno, giorno in cui si commemora San Antonio da Padova. Quando, poi, mi sentirai gridare: Vanne! (cioè: ‘Giovanni!’. Vanne e Vanni rappresentano altrettanti ipocoristici aferetici, l’uno di Giovanne e l’altro di Giovanni. Il Diàntene parla in codice, con un linguaggio crittato, egli, infatti, pronunciando la parola Vanne, vuol far credere che si tratti soltanto d’una forma verbale contratta, dell’imperativo, cioè, di vàttene. Vanne, infatti, oltreché essere impiegata dialetto locale, era un tipo verbale già in uso nell’italiano antico. Es.: Ludovico Ariosto, nell’Orlando Furioso, scrive: «[…] Or vanne, Astolfo […]», ‘ora vattene, vai via, parti, o Astolfo’) Festa e fiera farai tu il giorno di San Giovanni Battista (22 o 23 di giugno). In quel fausto giorno, infatti, favorevole agli uomini e alle loro imprese, vi è il benigno solstizio d’estate. In quel giorno, infatti, alla festa del santo si aggiunge “la fiera de San Giovanne”, il più grande fra i mercati annuali, ove potrai soddisfare ogni tua esigenza e desiderio’. Le nostre popolazioni contadine riassumevano il massimo della gioia nell’espressione: «Fa’ festa e fiera!», ovverosia, ‘nel giorno della festa di San Giovanni godersi anche la fiera, intitolata al Suo nome’. Dalle nostre parti, la fiera di San Giovanni era particolarmente grande e fastosa a Gubbio, luogo in cui, per commemorare il Battista, cui era dedicata l’antichissima cattedrale («dòmo», s.m., ‘duomo’), si vendevano campane completamente fatte di coccio (compreso il batacchio!) e fantasiosamente dipinte, e, molti secoli prima, si offriva al Santo un gran stendardo, recante l’effigie d’un grifo rampante.

121 «Da l’acqua s’arpàreno, e dal vento, le streghe angrumàte a Boninvènto! A Boninvènto, sott’a ’na gran noce, ’n’ardunàta fanno ’n bel po’ atroce, ch’a tutto ’l mondo, al mondo ’ntero, nòce. A Boninvènto, sott’a ’n noce maschio, mìschieno le voce ’nte ’n gran ràschio. Si ’nte ’l caldaro loro ’n te vòi còce, da Domineddio lancia ’nna voce.» = ‘Le streghe si riparano dalla pioggia e dal vento (vale a dire dagli ostacoli che Dio frappone alle loro mille malefatte), rifugiandosi, raggruppate Angrumàte», agg. e part. pass. Letteralmente ‘a formare un grumo, ‘aggrumate, raggrumate’, come il sangue secco), sotto il noce di Benevento («Boninvènto», s.m. Variante fonetica popolare dell’odierno poleonimo italiano Benevento)! A Benevento, sotto ad un grande, annoso noce “maschio”, vale a dire ‘sterile, infecondo’, le streghe si danno un convegno davvero atroce, che nuoce a tutto il mondo, al mondo intero. A Benevento, sotto ad un malefico ed infecondo noce, le mille voci discordanti, e reciprocamente accavallàntisi delle streghe, formano un unico insopportabile strepito sonoro («Ràschio», s.m., deverbale di ‘raschiare’), simile allo stridore emesso da due ferri che vengano fatti ripetutamente sfregare tra di essi. Se tu vuoi sottrarti alla loro intenzione di cuocere la tua anima nel loro caldaio, lancia un alto grido, e, con esso, invoca, in tuo aiuto, il Signore Iddio. Con quanto ha detto, il Diàntene intende parafrasare un famoso detto, proprio della cultura popolare delle nostre parti: “Sott’a acqua e sott’a vento, a la noce de Boninvènto!”. Assai famosa fu, in tutta Italia, la storia della “strega di Benevento”, da cui deve aver tratto origine anche tale ultima rima popolare.

122«Mo’ ’l vino bevemo ’nte ’sta gràlla: guàrdela bene e véde d’arcordàlla, ché, si l’arvédi, tanto essa è bella, ch’a meno ’n pòssi fa’ d’arconoscélla. Tanti la guàrdeno e ’n la védeno, e ch’è solo ’nna coppa lór se crédeno. Quanno la grazia, al’improvìso, vène, beato chi capisce e se la tène. Ma, più d’ogn’altra cosa, questa gràlla, col nome proprio te toccarìa chiamàlla». = ‘Ora beviamo il vino in questo calice («gràlla», s.f., derivante, forse, da gròlla, a sua volta risalente, quale incrocio linguistico, a gradale e graal, la coppa eucaristica, ove secondo un’antica tradizione, raccolta, conservata e tramandata nell’ambito della cultura dei Templari, Gesù Cristo avrebbe bevuto il vino durante l’ultima cena e nella quale sarebbe stato raccolto il suo sangue nel corso della crocifissione): tu guardala bene e fai in modo di non dimenticartela, poiché, così facendo, essa ti apparirà talmente bella e sfolgorante di luce, che, se avrai a rivederla, non potrai fare a meno di riconoscerla. Tanti, invece, pur guardandola fissamente, non riescono a vederla nella sua vera essenza, e finiscono, allora, per credere che essa altro non sia che una banale coppa. Quando, infatti, la grazia scende all’improvviso su di noi, beato è solo colui, il quale, comprendendola appieno, la riceve e se la tiene, allo stesso modo in cui si custodisce una cosa di valore inestimabile. Ma, sopra ogni altra cosa, ricordati che per avere le grazie e i benefici che la gràlla, come coppa ricolma della bevanda salvifica reca con sé, è indispensabile chiamarla col suo nome vero ed autentico’.

123 Il consiglio dato dal Diàntene, che è rivolto a tutti gli uomini moderni, vuole invitarli a cambiare rapidamente vita, poiché, quelli che essi stanno consumando con tranquilla noncuranza, sono gli ultimi frutti che la Natura, troppo lungamente violentata, potrà loro concedere. Le rime sono liberamente tratte da un antico adagio popolare, registrato a Fiume, frazione di Scheggia: «Magnate le nespole e piagnéte, perch’ è l’ultimo frutto de l’estate…».

124 «Tutto […] è creato col fine» = Antico adagio tramandatoci dalla saggezza popolare: ‘ogni cosa creata porta scritto in sé il giorno della propria fine’. Notare il genere maschile del sostantivo ‘fine’.

125 «Cantone» = durante il governo napoleonico, Costacciaro era, dal punto di vista politico-amministrativo, un Cantone di Gubbio.

126 «Cantuccio» = variante popolare di Cantone, indicante anche l’annosa marginalità storica ed economica dell’area del Parco di Monte Cucco. Il Diàntene profetizzando l’imminente fine («finazione», nel dialetto arcaico) del mondo, vede la scena già in atto davanti ai propri occhi (si noti, infatti, il brusco passaggio dal futuro al presente indicativo).

127 ‘Il sangue scorre sulle strade come fosse acqua piovana e ricade sulla testa di tutti quanti, giusti o peccatori che siano’. Il Diàntene fa proprie talune profezie popolari. Basate sulla lettura di alcuni antichi libri di argomento incerto, esse vogliono che il «Cantuccio (o Cantone) di Gubbio», genericamente identificabile con i Comuni pedemontani di Scheggia, Costacciaro, Sigillo e Fossato di Vico, sarà l’unica zona a salvarsi da un misterioso quanto rovinoso cataclisma geologico, che giungerà a distruggere gran parte della terra.

128 ‘Il grande terremoto esaurirà tutta la propria energia all’interno della Grotta di Monte Cucco (un’antica credenza, radicata nei paesi pedeappenninici del massiccio del Monte Cucco, vuole che i terremoti che, periodicamente, interessano quest’area vengano alquanto attenuati nella loro intensità dalle grotte che permeano le viscere del Cucco. Queste profonde e vaste cavità, infatti, avrebbero la peculiarità di far “sfogare” al loro interno le onde sismiche che le attraversano.) e l’alluvione («’l pinaróne», cioè una sorta di secondo diluvio universale) non giungerà che a lambire queste zone, cosicché le loro popolazioni si salveranno dall’annegamento’.

129 «Beati quelli che, quela matìna, staranno sott’a la mela conventina. Felici quelli, in quela matìna, tolà do’ fa la mela conventina.» = ‘Coloro i quali, la mattina in cui si verificherà la fine del mondo, verranno a trovarsi sotto l’ombra protettrice del melo conventino, tanto frequente in quest’area da esserne assurto quasi a simbolo («[…] Tolà do’ fa la mela conventina» = ‘Là dove alligna la mela conventina’, cioè il Cantuccio di Gubbio), saranno beati, poiché avranno salva la vita e l’anima loro.

130 «Quanno del mondo verrà la finazione: de Gubbio, tutti, ristate ’nte ’l Cantone!» = ‘Quando verrà la fine del mondo, rimanete tutti a vivere nel Cantone di Gubbio!’. Il Diàntene lancia il suo ultimo accorato appello agli uomini, affinché restino («Ristate» = ‘restate’) là dove affondano più saldamente le proprie radici, cioè sulla terra dei propri padri, rimanendo nella quale sopravviveranno ad ogni sconvolgimento morale e a tutti i cataclismi materiali, con i quali l’umanità giungerà a dare il “colpo di grazia” all’intero pianeta.

131 «Si del bene vòi fare tu a ’nn’amico: latte de capra e legno de fico!» = ‘Se si vuol trattare veramente bene un amico, occorre servirlo, offrendogli latte di capra (il miglior latte che ci sia) e legno di fico (il peggiore legno come resistenza ed utilità pratica, ma, in assoluto, il migliore per tenere lontano l’influsso malefico delle streghe, specie quando, con esso, sia confezionata una piccola forca, dalle punte (“còrni”, s.m. pl.) acuminate. Si ricordi come, nella nostra cultura popolare, il fico sia considerato “la pianta dal latte”, vale a dire ‘l’albero che secerne il latte’. Si attribuiva, dunque, un’importante valenza magica a quest’albero, che pareva essere fecondo, come una donna gravida, cui venga il latte (si ricordi anche il mito latino, relativo alla fondazione di Roma, del ficus ruminalis, e alle foglie di fico, con le quali Adamo ed Eva si sarebbero coperti le pudenda. Il lattice del fico era impiegato, in maniera pratica, per far cagliare il formaggio e per provocare, in maniera invero pericolosa, una maggiore turgidezza al glande maschile.

132 Le campane di talune chiese, spesso usate per le rituali rogazioni, prendevano il nome di “Elisabetta”, poiché santa Elisabetta è, come dice la presente preghiera, recitata un tempo a Sigillo e nel suo territorio, specialmente invocata, insieme a sant’Anna e a santa Barbara, contro i fulmini (“fùlmeni”, s.m. pl.): «Sant’Anna, Santa Barbara e Santa Elisabetta liberàtece dal fulmine, da la grandine e da la saetta!». In queste campane impiegate per le rogazioni e per allontanare i temporali era talvolta scritto, come a Villa Col de’ Canali: «A fulgure et tempestate libera nos, Domine» = ‘Liberaci, o Signore, dal fulmine e dalla tempesta!’.

133 Antica implorazione rivolta a sant’Ubaldo, perché, al primo lampeggiare del cielo (“slàmpena”, v. intr. = lampeggia), scongiuri la minaccia della grandine (“gràndena”, s.f.) e dei fulmini.

134 Alcune persone, specie i religiosi, sconsigliavano o proibivano questa pratica, dicendo che le catene del caldaio potevano evocare quelle, infernali, con le quali era stato legato Lucifero, il quale secondo un proverbio popolare non potrà mai più liberarsi dalla sua prigionia, perché, come avrebbe detto Iddio, egli si potrà svincolare soltanto: «[…] Quanno l’oliva butta la fòjja, quanno dal cielo cade la neve nera, quanno Pasqua vène de maggio!».

 Antica implorazione rivolta a sant’Ubaldo, perché scongiuri la minaccia della grandine e dei fulmini.

135 «“La terra anchi dal fulmine l’arègge”: vòi che ’n te tène dei cristiani ’l gregge? Fìcchete sùbbito sott’a ’nno spino grosso, ché ’l fulmine ’n te pòle cade adòsso.» = (il Diàntene ripete un antico detto popolare: “La terra arègge anchi dal fulmine”, cioè: ‘la terra sostiene anche il fulmine’)‘La terra regge anche l’impetuosa caduta del fulmine, che, in essa, esaurisce tutta la sua energia: vuoi tu che non sopporti il peso del gregge degli uomini che, a miliardi, giornalmente la calpestano? Rifùgiati immediatamente sotto un grande arbusto spinoso, poiché, riparato sotto le spine di questa pianta, il fulmine non potrà mai colpirti!’. La presenza antica di arbusti spinescenti, che punteggiavano un tempo le praterie montane, ha probabilmente dato origine al nome di uno dei più bei pianori del massiccio del Monte Cucco: Pian di Spilli o de Spille (dal latino spinulae, spinuli?). A salvaguardare questi arbusti spinosi, detti genericamente “spini”, contribuì una credenza radicata presso gli abitanti di San Felice: essi avrebbero protetto dai fulmini le pecore “’meriggiate” sotto le loro chiome. Uno spettacolare individuo di “spina bianca” (Crataegus sp.) sorgeva, sino a pochi anni fa, su di una pendice del Monte Forcello, in comune di Scheggia. L’annoso arbusto veniva detto “La Spina” e, dal suo nome, si denominava anche l’area ad esso circostante. I pastori amavano soffermarsi all’ombra dei suoi rami.

136 Quando, durante un temporale, lampeggiava, le persone superstiziose erano solite farsi, “in nòme della Santissima Ternità”, (ovverosia: ‘nel nome della Santissima Trinità’), che il triplice gesto evocava, tre segni di croce sulla fronte.

137 «Po’, questa lampa, tène su le mano: si te se spigne, vól di’ che sai lontano, si te se smòrcia con ciàmo de lute, le pene tua te l’averai volute; sinnò, col lume fiacco de le stèlle, tu, cocco mio, non pòssi gìcce ’nvèlle. ’Sta lampa vecchia se chiama cendilèna, t’aiutarà a camina’ con lèna, ’sta lampa racchia fa lume col carburo: è ’n lume chiaro, che fa spari’ lo scuro. Ce gìvon, setoràti, i minatori, i spiòlichi, i ladri de tesori…». Il Diàntene da’ un estremo, prezioso consiglio all’uomo moderno, che deve intraprendere la strada del ritorno al fioco lume delle stelle. Il simbolismo è chiaro: l’uomo moderno ritorna nel mondo d’ombra dal quale era emerso, ma il Diàntene, con i suoi saggi e sapienti ammaestramenti, gli consente di viaggiare sicuro, in quella paurosa oscurità, fornendogli lo straordinario strumento, rappresentato dalla “saggezza illuminante”, che è simboleggiata dalla “lampa cendilèna”. Nella notte illune del “mondo-aldiquà”, l’uomo, così istruito, non potrà mai più smarrire la retta via e perdersi per i tanti “stradelli avèrsi”, che la intersecano e la confondono.

Poi tieni in mano questa lampada: quando ti si spegnerà vorrà dire che sei lontano, se la fiamma si spegne accompagnata da uno sciame di scintille (“ciàmo de lute”. Il termine dialettale luta, ‘scintilla’ deriva dall’aggettivo latino luteus, ‘giallo’, a causa del suo colore “biondeggiante”), le pene, a cui andrai incontro, sarai stato tu ad avertele cercate; altrimenti, con il fioco lume delle stelle, non potrai andare proprio da nessuna parte (“’nvèlle”). Questa vecchia lampada, che si chiama acetilene (’cendilèna è forma dialettale aferetica (derivata da un probabile modello antecedente, come *acendilèna) e normalizzata, originatasi sulla spinta dell’analogia formale con il verbo acènde, ‘accendere’.), ti aiuterà a camminare spedito, questa lampada brutta fa luce grazie al carburo: è una luce chiara che fa dileguare le tenebre. Ci andavano sottoterra (si noti la marcata sottolineatura che porta con sé l’impiego dell’aggettivo setoràti, che, letteralmente, equivale all’italiano ‘sotterrati’) i minatori, gli speleologi (“spiòlichi”) e i tombaroli…’

138 «Si la notte te còjje, tutt’a ’n tratto, da l’Ostaria fèrmete de ’l Gatto, ch’a Costaciàro sta sopre ’L Trióne, e ch’a ’loggiato ’n mucchio de persone; prima che entri, vedderai tu ’n gatto, de pietra lavorata tutto fatto, sopre de lue, ch’apòggia sopre ’n tronco, ’n pensiere leggerai, che pare monco; che sia ’l sole, o ’l nuvolo, o che piova, a ben capìllo ognun che passa prova: “Io so’ ’l gatto e l’ostello se ne giova”.» = ‘Se, durante il tuo viaggio, vieni sorpreso improvvisamente dalla notte, fermati all’Osteria del Gatto, che si trova nei pressi del rivellino di Costacciaro e che, nei secoli, ha alloggiato un gran numero di persone; prima di entrarvi, tu vedrai l’effigie di un gatto, scolpita su di una pietra arenaria, sopra di esso, che poggia le zampe sopra un tronco d’albero abbattuto, leggerai un concetto, che, a tutta prima, può sembrare incompleto ed incoerente; chiunque passa, e, con qualsiasi tempo, osservando attentamente questa pietra scolpita in bassorilievo e la soprastante epigrafe, tenta di afferrarne rettamente il senso: “Io sono il gatto e l’ostello se ne giova”. Su un muro di Costacciaro, si conserva una pietra arenaria sopra la quale è scolpita, in bassorilievo, l’immagine di un gatto. Sopra di esso, figurano tre sibilline frasi sovrapposte e scritte in caratteri maiuscoli («ISOVGAT/EOSTEVL/ENIOVET»). Il manufatto potrebbe rappresentare un possibile vestigio scultoreo d’epoca altomedioevale, forse proveniente dal Castello dell’Isola dei Figli di Manfredo. Questo, almeno, è quanto suggerisce un’ipotesi avanzata dall’illustre studioso di epigrafia latina Bartolomeo Borghesi, il quale, passando per Costacciaro agli inizi del XIX secolo, commentò con le seguenti parole l’iscrizione scolpita sulla pietra: «Queste sono le vostre voci avanti il mille [...] ma le parole sono di quella nostra vecchia lingua, che i Provenzali chiamarono romanesca» (cors. agg.). Cfr. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca, vol. II, par. II, Imperiale Regia Stamperia, Milano, 1820, pp.184-185. Nessuna controversia può insorgere sul fatto che, una locanda, specie se antica, in cui venivano conservati numerosi generi alimentari, si potesse giovare dei servigi resi da un gatto con il mangiare i topi. Tuttavia, il senso dell’epigrafe può leggersi anche simbolicamente, facendo il gatto uguale al padrone dell’ostello e i topi uguali ai ladri che lo minacciavano o ne sfruttavano i servizi senza pagare. «State attenti! -pare dire il padrone gatto agli sfruttatori topi- io sto ben saldo sul tronco della mia proprietà, pronto a balzare su di voi come una fiera per divorarvi tutti quanti siete!…».


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